Super Sud, un tuffo nella storia: Ferdinando II, il re riformatore. La sua morte spianò la strada a Garibaldi

Secondogenito, ma primo maschio di Re Francesco I, Ferdinando nacque a Palermo il 12 gennaio 1810 e morì a Caserta il 22 maggio 1859, appena quattro mesi dopo aver festeggiato il suo 49esimo compleanno. Era morto, quindi, soltanto da un anno quando Giuseppe Garibaldi, ufficialmente di “sua sponte”, in realtà con il tacito assenso di Camillo Benso Conte di Cavour, presidente del Consiglio dei Ministri del Regno di Sardegna e del sovrano piemontese Vittorio Emanuele II, partendo da Quarto, diede il via all’invasione del Regno meridionale.

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Ed è lecito chiedersi se, con lui ancora sul trono duosiciliano, le cose sarebbero andate allo stesso modo. Risposta, a posteriori, praticamente impossibile: la storia si scrive con i fatti ed aborrisce i “se” e i “ma”. Ma, alla luce di quanto il sovrano aveva dimostrato durante gli anni di regno, di sicuro l’eroe dei due mondi, i suoi “mandanti” e, soprattutto, i “mille”, avrebbero dovuto faticare molto di più di quanto in effetti fecero (molto poco, in verità) per appropriarsi del territorio e del trono delle Due Sicilie.

Camillo Benso Conte di Cavour
Camillo Benso Conte di Cavour

Di più: alla luce delle condizioni economiche dei due regni protagonisti di quell’evento, è lecito anche chiedersi se la storia, nel caso in cui Cavour fosse stato a Napoli e non a Torino, avrebbe avuto lo stesso evolversi o il viaggio dell’unificazione avrebbe seguito il percorso sud-nord anziché quello nord-sud? Possibile. Ma è soltanto un’ipotesi personale. La storia, quella registrata dai fatti e dagli accadimenti, è andata com’è andata. Ed è questo quello che importa.

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Ma per tornare a Ferdinando, inizialmente egli assunse il titolo di Duca di Noto, poi nel 1825, assurto al ruolo di principe ereditario, divenne Duca di Calabria. Educato da rappresentanti della chiesa, mise in mostra sempre una fede profonda ed una notevole passione per la vita militare. Era ancora bambino quando gli inglesi, pensando, proprio a causa della sua giovanissima età, di poterlo manovrare a loro piacimento, lo nominarono Re di Sicilia; e per la stessa ragione, durante i moti del 1820 i carbonari pensarono di potergli poggiare sul capo la corona di Lombardia; qualcuno, successivamente, propose anche di farne il capo del futuro Risorgimento.

Insomma: più che un Re, alcuni ritenevano di poterlo trasformare in una sorta di “uomo di paglia”, un burattino da manovrare a proprio piacimento ed a proprio uso e consumo. Avevano, però, fatto i conti senza l’oste.

Inglesi e Carbonari avrebbero voluto farne un “uomo di paglia”, ma non gli riuscì. Amava troppo la sua gente

Ferdinando, infatti, innamorato della sua terra e della propria gente, convinto che ogni sovrano meritasse la lealtà degli altri e rispettoso del dettato divino di non fare agli altri ciò che non si vorrebbe fosse fatto a noi, si guardò sempre bene dal condividere ed accettare tale “avances”. Cosa che, però, non fecero gli altri nei suoi confronti.

Nel 1827, quando gli austriaci lasciarono il Regno, egli, su nomina del padre Francesco I, divenne Capitano Generale dell’esercito e l’8 novembre 1830, quando ancora non aveva virato la boa del ventesimo anno di vita, salì al trono, facendosi precedere da un proclama con il quale prometteva di voler risanare le Due Sicilie da tutte le piaghe che ancora continuavano a rendere difficile la quotidianità dei sudditi. Un impegno che cercò di mantenere fino alla fine.

Liberò il Governo dai ministri indegni, ridusse di gran lunga le spese di Corte, amnistiò detenuti politici ed esuli, restituì al proprio incarico gli ufficiali murattiani che ne erano stati privati in seguito ai moti del 1820, e si guardò bene dal punire, come avrebbero meritato, quelli che all’alba del sua ascesa al trono avevano attentato alla sua vita.

Principessa Maria Cristina di Savoia
La principessa Maria Cristina di Savoia

Non dimenticò mai di essere un sovrano cattolico, al punto d’avversare sempre, apertamente e ferocemente, le riforme liberali della sorella Maria Cristina in Spagna, mentre appoggiò, con la stessa forza e la stessa intensità, le posizioni carliste. Nel 1832 sposò la principessa Maria Cristina di Savoia, quarta figlia di Vittorio Emanuele I, che gli diede come erede quel Francesco II che, 29 anni dopo, sarebbe stato vittima degli appetiti famelici e della voglia di conquista della sua stessa famiglia dal lato materno.

Tutto questo, insomma, mentre l’Italia unita avrebbe potuto nascere senza spargimento di sangue e senza togliere meriti ai Borbone per quello che avevano saputo fare. Sicchè il silenzio-assenso del re sabaudo alla spedizione garibaldina, forse, fu soltanto frutto dell’opportunismo e della grande ipocrisia dei Savoia, cui interessavano il Sud e le ricchezze dei Borbone, ma non volevano dare la sensazione di nutrirsi della carne dei propri figli.

Il rapporto Nord-Sud sempre condizionato dalla protervia del Nord, ma anche dalla superficialità del Sud

Cosa, del resto, che da quel momento in avanti si sarebbe ripetuta più volte nella storia italiana del rapporto Nord-Sud. Non tanto, e non solo, per la protervia e l’arroganza dei nostri cugini dell’altraItalia, ma anche e, a nostro parere, soprattutto per la sciatteria, la superficialità e, spesso, anche la cialtroneria cui noi abbiamo improntato la nostra quotidianità. Ne fanno fede i tanti miliardi che, dalla metà degli anni ’90 del XX secolo in poi, sono scivolati – e ancora continuano a farlo – lungo il tacco, senza lasciare dietro di se alcuna traccia del proprio passaggio.

Maria Cristina di Savoia, però, fu una donna di eccezionale carità e spirito religioso, seppe sopportare con grande rassegnazione e forza d’animo le sofferenze causatele da una salute malferma che la condusse alla morte, quindici giorni dopo aver dato la vita al figlio Francesco Il che, probabilmente, rese ancora più facile, qualche anno dopo, la scelta sabauda di aggredire il Regno delle Due Sicilie.

Fu amata e venerata da tutti i sudditi che la consideravano già in vita una santa e fu inserita dalla autorità ecclesiastiche nel novero delle Venerabili. Il suo processo di canonizzazione, interminabile come tutti quelli di questo tipo, è tuttora in corso. Ad ogni modo, il 26 dicembre dello stesso anno, Ferdinando si risposò con l’arciduchessa Maria Teresa d’Asburgo, dalla quale ebbe nove figli, fra cui Alfonso Maria, Capo della Real Casa dopo la morte senza eredi di Francesco II nel 1894, e varie figlie, andate in moglie a sovrani europei.

Giuseppe Mazzini
Giuseppe Mazzini

Alla fine ingloriosa dei moti carbonari del 1820-’21 e del 1830-’31, il testimone della rivolta passò nella mani di Giuseppe Mazzini, che diede vita alla “Giovine Italia”, una sorte di antesignana dei gruppi extraparlamentari degli anni ’60 del secolo scorso, e che immediatamente mise in campo una serie di tentativi di sovvertire l’ordine costituito.

Tentativi spesso al limite del grottesco, come quello, ad esempio, dei fratelli Bandiera i quali, con una manciata di uomini, venti in tutto, volevano stravolgere la quotidianità del Regno delle Due Sicilie, ritenendo che le popolazioni del Sud ne avrebbero ammirato l’esempio, li avrebbero seguiti e con loro cacciato i Borbone. Non avevano fatto conto, però, dell’affetto con cui i sudditi avevano preso a circondare quella famiglia che stava regalando ad essi e alla loro terra benessere e ricchezze. Il tentativo, com’era prevedibile, andò a vuoto e tutti gli insorti andarono incontro ad una tragica fine.

12 gennaio del 1848: Ferdinando II concede, prima fra tutti i monarca d’Italia, la Costituzione

All’estremismo mazziniano, intanto, il partito moderato risorgimentale oppose la proposta di confederazione degli Stati legittimi, elaborata da Vincenzo Gioberti e “raccontata” ne “Il primato morale e civile degli Italiani”, pubblicato la prima volta nel 1843.

Il sacerdote e filosofo piemontese, che in seguito sarebbe diventato il primo presidente della Camera, dopo aver esaltato il primato mondiale della civiltà e della cultura italiane, dovuto secondo lui alla fortuna di ospitare sul proprio territorio nazionale la Chiesa Cattolica, avanzò l’ipotesi che, per risolvere in modo definitivo la Questione Italiana, gli Stati legittimi, mantenendo regnanti e dinastie, si unissero in una confederazione, affidata alla guida al Pontefice Romano.

La base della proposta giobertiana, quindi, fondava da un lato sulla conservazione del cattolicesimo di stampo tradizionalista e dall’altro sulla sottoscrizione di un patto di unità confederativa: si provava così a contemperare le esigenze del tempo, cercando naturalmente di soddisfarle tutte.

A motivo di ciò, l’idea, pur conquistando ampi spazi di consenso, ma anche di dissenso, divenendo ragione di confronti e di scontri, fu molto dibattuta ma non ebbe molta fortuna: sembrò per altro prossima alla realizzazione nel 1846 con l’ascesa al Soglio di Pietro di Pio IX, favorevolissimo al progetto. Non a caso, dunque, e grazie al suo impegno riformatore, il papa si trasformò, pur senza aver mai cercato di diventarlo, nel simbolo vivente del Risorgimento italiano in questa prima fase.

Papa Pio IX
Papa Pio IX

Ferdinando II, però, non si mostrò mai particolarmente convinto delle concessioni politiche, tra l’altro sempre più spinte e meno controllabili, che Papa Pio IX continuava a fare, ma la tesi del Gioberti, non lo vide mai tra i suoi avversari per partito preso. Amava, e lo aveva più volte dimostrato, un’Italia della quale sognava l’unità: ma con l’esperienza maturata nei venti anni di regno che aveva ormai messo insieme e ammaestrato da ciò che suo nonno era stato costretto a subire, non si fidava di liberali e rivoluzionari e, probabilmente, nemmeno di qualche suo collega monarca italiano.

Il 12 gennaio del 1848, però, allo scoppio dell’ennesima rivolta autonomista in Sicilia, stanco di essere sempre costretto a subire le grane conseguenti alle riforme altrui, decise che fosse arrivato il momento di precedere e sfidare tutti i sovrani italiani: così, pur essendo sempre rimasto ai margini del movimento riformista voluto da Pio IX, anticipò tutti e concesse la costituzione. Il che, ovviamente, mise in grandi difficoltà tanto il Papa, quanto il Granduca di Toscana, i Duchi di Parma e Modena e Carlo Alberto a Torino, costringendoli a seguirlo su questa strada ed a fare, uno via l’altro, la stessa concessione.

Tutto ciò, naturalmente, fece venir meno tanto la stabilità quanto l’ordine, raggiunti nel 1815 al termine del Congresso di Vienna, dove, per altro, una rivoluzione aveva fatto uscire di scena Metternich. Evento di cui i milanesi seppero approfittare al meglio. Il 18 marzo, infatti, insorsero, si scrollarono degli austriaci e chiesero a tutti i sovrani italiani di unirsi contro gli Asburgo per provare insieme a costruire l’indipendenza del Paese. Lo stesso Carlo Alberto, pur dopo lunghissime ed estenuanti esitazioni ed incertezze, aveva inviato il proprio esercito in Lombardia e aveva preso a marciare contro il “Quadrilatero” austriaco.

Sicché il disegno del Gioberti sembrava cominciare a prendere forma e consistenza. E poiché Pio IX aveva aderito alla spedizione, anche se più a difesa dello Stato Pontificio che con l’intento di attaccare effettivamente l’esercito asburgico, e il Granduca di Toscana aveva fatto la stessa scelta, il re delle Due Sicilie ritenne che finalmente gli italiani si fossero decisi ad unirsi per conquistarsi la propria indipendenza: scelse in tal modo di entrare in campo anche lui ed aggiunse il proprio esercito a quelli già mobilitati per combattere. Avrebbe potuto essere l’occasione topica per la storia d’Italia: tutti insieme per fare dell’Italia un Paese unito ed indipendente.

Ma il disegno di fondo sul quale stavano evolvendo le cose era quello elaborato dal neoguelfismo: un’Italia confederata e cattolica, di conseguenza monarchica e legittimista, su cui, però, non tutti erano d’accordo. A cominciare dai cosiddetti democratici, che puntavano a realizzare il sogno mazziniano di sovversione repubblicana dell’ordine tradizionale, per finire a Carlo Alberto, il cui obiettivo principale era quello di soddisfare l’antico sogno di Casa Savoia, cioè conquistare la Lombardia e, possibilmente, il Veneto. Resosi conto di questa realtà, Ferdinando mutò strategia, seguendo l’esempio di Pio IX.

Il pontefice, infatti, aveva già richiamato a Roma le proprie truppe perché da un lato appariva già evidente che nello Stato Pontificio i mazziniani si apprestavano a tentare l’ennesimo tentativo di impadronirsi del potere, cancellando quello papalino, e dall’altro perché Vienna minacciava un nuovo scisma se il Papa non avesse rinunciato a combattere l’Impero asburgico da sempre uno dei più ossequiosi della chiesa: Pio IX, infatti, al di là del proprio indiscutibile amore per l’Italia e del fatto di essere il sovrano di uno Stato italico, era e si sentiva soprattutto il Pastore di tutti i cattolici del mondo, e dunque, senza mostrare alcuna esitazione, fece macchina indietro.

Preoccupato delle voglie di conquista dei reali sabaudi, Ferdinando II revoca la Costituzione liberale del 1848

A questo punto, com’era stato il primo a concederla, Ferdinando II decise anche di essere il primo a revocare la Costituzione, temendo che, per le troppe concessioni liberali che vi erano previste, il governo potesse sfuggirgli definitivamente di mano, consentendo a Giuseppe Mazzini di appropriarsene. Come, del resto, si stava già verificando a Roma e Firenze. Un rischio reso evidente dallo scoppio di varie rivoluzioni locali che stavano incendiando le provincie al Sud del Regno borbonico.

Carlo Alberto di Savoia
Carlo Alberto di Savoia

Ferdinando infine, ritenendo che far morire i propri uomini non per dare vita alla Confederazione italiana, ma per consentire a Carlo Alberto di realizzare i propri disegni egemonici in Lombardia, non fosse assolutamente cosa giusta, richiamò dal fronte il suo esercito. Poi provvide a riconquistare la Sicilia, cancellando disordini, rivolte e propositi rivoluzionari e sovversivi. Il che ne sottolineò, ancora una volta, la forza di carattere, e la grande generosità.

E anche in questa occasione concesse il proprio perdono a quanti erano stati condannati a morte per ribellione in seguito agli avvenimenti del ’48. Una generosità, però, che i rivoluzionari non ripagarono con la stessa moneta. Anzi. Un ufficiale calabrese, Agesilao Milano, infatti, cercò – purtroppo, per lui, fallendo nel tentativo – di ucciderlo nel 1856. Il Milano fu condannato a morte e questa fu l’unica e sola condanna che Ferdinando non volle amnistiare. Per l’eccesso di fanatismo e l’ingratitudine che lasciava trasparire.

Ne lo si può accusare di essere stato meno deciso e determinato e di non avere avuto le idee chiare in politica estera, in difesa degli interessi del suo popolo: Ferdinando II fu sempre capace di rispondere «no» alle pretese sia dell’Austria che della Gran Bretagna. Tant’è che, negli anni ’30, nonostante l’ancor giovanissima età, si oppose a Palmerston circa la questione legata al monopolio dello sfruttamento dello zolfo che nel 1816 il Governo di Sua Maestà britannica aveva strappato in cambio di pochi spiccioli a Ferdinando I, senza che le Due Sicilie ne ricavassero granchè.

Una concessione che a Ferdinando II non andava assolutamente a genio. Tra l’altro aveva anche abolito la tassa sul macinato per alleggerire la pressione fiscale che gravava sul popolo e, di conseguenza, aveva necessità di fondi per coprire il prevedibilissimo minore introito che ne sarebbe derivato.

Una società francese si offri di pagargli il diritto di sfruttamento del monopolio il doppio di quanto pagava l’Inghilterra e lui decise di accettare. Il Parlmerston, senza por tempo in mezzo, fece schierare la flotta inglese nelle acque antistanti il Golfo di Napoli e minacciò di mettere a ferro e fuoco la città. Ma Ferdinando II non arretrò d’un passo di fronte alla minaccia. Con determinazione cominciò a preparare flotta ed esercito alla guerra imminente. Conflitto che non ci fu, grazie alla mediazione di Luigi Filippo, re dei Francesi. Il monopolio rimase agli inglesi, ma il Regno delle Due Sicilie fu costretto a risarcire i vecchi concessionari ed anche i francesi per il danno subito.

Napoleone III
Napoleone III

Né accettò l’offerta di Francesco Giuseppe che nel 1851 gli propose di costituire una lega degli Stati italiani, e rifiutò anche le pesantissime pressioni ricevute da Luigi Filippo prima e da Napoleone III poi, che gli chiedevano di mutare registro nel metodo di governare il Regno. Di contro mostrò sempre particolare e filiale devozione nei confronti di Pio IX cui offrì ospitalità nei due anni di esilio da Roma durante gli eventi del ’48 e della Repubblica Romana. Non concesse, però, mai niente di più o di meglio di quanto non fosse esplicitamente previsto dal Concordato al momento vigente. Successivamente impose ai gesuiti di “La Civiltà Cattolica” di abbandonare il territorio meridionale.

Morì giovanissimo e trascorse gli ultimi anni di vita nella consapevolezza che, forse, per il Regno delle Due Sicilie si stesse avvicinando la fine, perché la monarchia piemontese, appoggiata della Gran Bretagna del Palmerston, le forze internazionali protestanti e la massoneria stavano affilando le armi per aggredirlo. La morte, però, cogliendolo prima che tutto ciò accadesse, gli impedì di mettere, ancora una volta, a disposizione della propria terra e della propria gente, quella energia, quella forza di volontà e quell’esperienza che aveva sempre saputo mettere in campo nei momenti difficili della vita del Regno. E fu la fine della monarchia borbonica.

Costituzione di Ferdinando II (fonte Wikipedia)

Fu il re più amato dai propri sudditi ai quali sapeva essere vicino, recandosi di persona nei luoghi colpiti da terremoti, epidemie e calamità varie. Tant’è che, se lo storico Luigi Blanch riconobbe «l’attaccamento della gente al proprio sovrano», il linguista e patriota italiano Niccolò Tommaseo lo descrisse come «il migliore dei principi d’Italia». Considerazione avvalorata anche dal fatto che, il 12 gennaio del 1848, fu il primo sovrano italiano a concedere la Costituzione.

Per dimostrare il suo affetto verso i sudditi, se invitato, partecipava ai loro matrimoni e lasciava anche un regalo in denaro

Non a caso l’irlandese P.K. O’Clery, descrivendolo nella sua opera sul Risorgimento, sosteneva come il re, in occasione dei suoi viaggi nel Regno, imponesse alle municipalità di non organizzare manifestazioni di benvenuto troppo onerose, preferendo essere ospite di qualche residente oppure nella locanda del villaggio o in qualche convento francescano.

E, per dimostrare questa la sua vicinanza alla gente, non disdegnava neanche di far da testimone ai loro matrimoni ed ai battesimi, lasciando ad ognuno di loro una piccola sommetta di denaro. Ed è giusto ricordarne anche l’adesione agli accordi franco-britannici del 1838 contro la tratta dei negri e la sottoscrizione di pene severissime contro i duelli, non solo per i duellanti, ma anche per i padrini.

Intanto, però, forse proprio a causa di questo feeling fra lui ed il popolo, come in una sorta di dantesca legge del contrappasso, si può dire non abbia mai goduto della simpatia della borghesia colta degli studi e delle professioni nè, a parte pochissime eccezioni, di quella dei cosiddetti «pennaruli e pagliette» né, infine, di quella degli storiografi del dopo-Unità.

Eppure è proprio a lui e alle sue riforme che si devono i risultati – per altro, mai riconosciuti da intellettuali pre e post-unitari – ottenuti dal Regno delle Due Sicilie. Lui, però, forse perché più disponibile nei confronti del popolo, non fu mai molto tenero con chi abusava della sua posizione privilegiata nell’amministrazione pubblica per trarne vantaggi personali, infischiandosi di quegli interessi generali che pure, allora come oggi, prendevano a pretesto delle loro rivendicazioni. Come a dire, insomma, che gli anni, e anche i secoli, passano, che i tempi cambiano, ma che la storia e la musica sono sempre le stesse.

Si tagliò l’appannaggio, abolì gli uffici inutili e le prerogative reale, non perché fosse necessario, ma per introdurre citeri di economia nelle finanze

E sempre lo stesso O’Clery, nella stessa opera di cui sopra, sottolineò come «per introdurre criteri di economia nelle finanze, Ferdinando ridusse il proprio appannaggio, abolì diversi uffici inutili e alcune delle prerogative reali e semplificò le procedure nelle Corti di Giustizia». Nel Regno delle Due Sicilie le spese effettive erano regolarmente inferiori a quelle previste; le successioni non erano sottoposte ad alcuna tassazione, così come nessun balzello era previsto sugli Atti delle Società per Azioni e su quelli degli Istituti di Credito; e anche la rendita fondiaria era bassissima. E ciò nonostante, grazie alla buona amministrazione il debito pubblico era minimo.

A testimonianza di tutto questo, il giornalista transalpino Charles Garnier, nel 1866, descrivendo la situazione del Regno delle due Sicilie testualmente scrive: «Le imposte erano meno gravose di quelle del Piemonte e minori di quelle italiane degli anni post-unitari, il credito del Governo solido, il debito basso, la coscrizione molto più tollerabile; gran parte delle entrate erano spese nell’agricoltura e nei lavori pubblici, fra cui si ricordano la prima ferrovia e il telegrafo elettrico in Italia, e anche il primo ponte sospeso e i primi fari diottrici furono attuati nel Regno; e così il primo battello a vapore. Il commercio era in crescita, fiorenti le manifatture».

Appena salito al trono, il suo primo atto di governo fu quello di concedere un’amnistia generale. Poi, dopo aver ripulito la pubblica amministrazione di intriganti, disonesti ed approfittatori, il secondo passo fu quello di ridursi l’appannaggio di ben 180mila ducati; inoltre concesse al popolo l’uso delle riserve reali di caccia, fino a quel momento di fruizione esclusiva dei sovrani.

Per rimettere a posto i conti dello Stato, cancellò molte delle rendite private, dimezzandone altre, concesse da Ferdinando IV. Riformò i ministeri, realizzando innovazioni che produssero risparmi di centinaia di migliaia di ducati. Fu sempre dalla parte della gente umile e dei poveri, cui cercò sempre di essere vicino e non solo a chiacchiere. Anzi. Tant’è che nell’”Almanacco del Regno delle Due Sicilie del 1854″ veniva sottolineato come nei territori del Sud continentale operassero ben «761 stabilimenti diversi di beneficenza, oltre 1131 monti frumentari, monti pecuniari, casse agrarie e di prestanza ed asili d’infanzia».

Per rendersi conto dell’importanza di questi istituti, basta pensare che i primi, ovvero quelli frumentari, furono istituiti alla fine del XV secolo con l’intento di supportare il ciclo agrario, prestando ai contadini più poveri il grano e l’orzo necessari per la semina. Per collaborare al loro funzionamento i contadini partecipavano con giornate di lavoro gratuito (roadie) nelle occasioni della semina e del raccolto, e le semenze ottenute venivano conservate in attesa di essere distribuite ai contadini che ne erano sprovvisti.

In caso di risultati estremamente positivi, le eccedenze venivano in parte vendute ed il ricavato veniva utilizzato per la creazione di Monti pecuniari per prestare agli agricoltori le somme per le spese di raccolto al tasso del 5 per cento. Di più, ogni paese o villaggio del Regno era fornito almeno di uno sportello bancario, di grandi o piccole dimensioni: e al governo dell’epoca va riconosciuto il merito di aver autorizzato, primo nel mondo, le banche a emettere i cosiddetti polizzini sulle fedi di credito. In pratica, gli antenati degli attuali assegni bancari.

E ancora, grazie alla buona amministrazione pubblica e all’oculatezza nella gestione finanziaria, la Borsa di Parigi – all’epoca la più importante del mondo -, una sorta di antesignana delle attuali società di rating e di valutazione del debito pubblico, assegnò alla rendita del Regno delle Due Sicilie una quotazione pari al 120 per cento: la più alta in assoluto di tutti i Paesi del mondo. E nel 1856, la Conferenza di Parigi, attribuì al Regno il terzo posto, dopo Inghilterra e Francia, fra le nazioni più industrializzate del pianeta.

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