Super Sud, un tuffo nella storia: la propaganda antiborbonica degli esuli partenopei

Francesco Pappalardo in ‘Civiltà del Sud’ nel 2003 scrive che «La rappresentazione del Mezzogiorno come un blocco unitario di arretratezza economica e sociale non trova fondamento sul piano storico ma ha genesi e natura ideologiche. I primi a diffondere giudizi falsi sugli inferiori coefficienti di civiltà su quell’area sono gli esuli napoletani che, nel decennio 1850-1860, con la loro propaganda antiborbonica non solo contribuiscono a demolire il prestigio e l’onore della dinastia, ma determinano anche una trasformazione decisiva nell’immagine del Sud».

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Tommaso Pedio, in ‘Economia e società meridionale a metà dell’Ottocento’, edito da Capone nel 1999, aggiunge che «La storiografia ufficiale continua ancora oggi a sostenere che, al momento dell’unificazione della penisola, fosse profondo il divario tra il Mezzogiorno d’Italia e il resto dell’Italia: Sud agricolo ed arretrato, Nord industriale ed avanzato. Questa tesi è insostenibile a fronte di documenti inoppugnabili che dimostrano il contrario: ma gli studi in proposito, già pubblicati all’inizio del 1900 e poi proseguiti fino ai giorni nostri, sono considerati dai difensori della storiografia ufficiale faziosi, filoborbonici, antiliberali e quindi non attendibili».

E’ giusto, però, sottolineare anche che a gettare ulteriore discredito sulla capacità e sulla qualità del governo dei Borbone furono non tanto gli esuli rientrati in patria insieme ai Savoia, delle cui doglianze nessuno può meravigliarsi.

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Bensì quelli che, dopo aver servito la dinastia sconfitta all’insegna del ‘morto il Re, via il Re’ e con l’obiettivo di conservare il proprio ‘status’, pur di balzare immediatamente sul carro del vincitore, non esitarono un solo momento a sputare veleno sul vinto.

Francesco Saverio Nittii

A testimoniarlo, come si legge ne ‘Gli scritti sulla questione meridionale’, curato da Armando Saitta per Laterza nel 1958, l’affermazione di Francesco Saverio Nitti ai primi del 1900: «Una delle letture più interessanti è quella dell’Almanacco Reale dei Borboni e degli organici delle grandi amministrazioni borboniche. Figurano quasi tutti i nomi di coloro che ora esaltano più le istituzioni nostre [del regno d’Italia] o figurano, tra i beneficiati, i loro padri, i loro figli, i loro fratelli, le loro famiglie».

La questione meridionale è nata dopo l’unificazione, non certamente prima

E se è vero, com’è vero, ciò che scriveva nel 1864, quindi appena qualche anno dopo l’unificazione, il conte Alessandro Bianco di Saint-Joroz, capitano nel Corpo di Stato Maggiore Generale, e cioè che «il 1860 trovò questo popolo del 1859, vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia; tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l’opposto».

«La pubblica istruzione – continua Alessandro Bianco di Saint-Joroz – era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia. Adesso veruna cattedra scientifica: Nobili e plebei, ricchi e poveri, qui tutti aspirano, meno qualche onorevole eccezione, ad una prossima restaurazione borbonica», allora non ci si può non rendere conto che la vera ‘Questione meridionale’ (quella che ancora oggi tiene banco) è nata all’indomani e non prima dell’unificazione.

Altra dimostrazione del benessere diffuso nel territorio del Regno delle Due Sicilie, grazie anche alla lungimiranza amministrativa dei Borbone, è la constatazione del costante aumento della popolazione che al momento dell’unificazione, nel 1861, era quasi quadrupla rispetto a quella esistente ai tempi di Carlo III, il sovrano che, incoronato nel 1734, aveva dato il via alla dinastia borbonica.

Tutto questo, come approfondiremo più avanti, in conseguenza di una politica economica, quella messa in campo dai Borbone, inizialmente finalizzata al sostegno dell’agricoltura – e non avrebbe potuto essere diversamente, visto che questa era l’attività principale nel Sud, in Italia, ma anche nella stragrande maggioranza del vecchio continente – ma senza perdere di vista l’esigenza dell’industria che cominciava a muovere i primi passi sempre più spediti, insieme all’artigianato, al commercio, ma anche al credito ed alla finanza.

Un’evoluzione confermata anche dall’analisi del primo censimento ufficiale post-unitario dal quale si rileva che, al momento dell’unità nel 1861, le Due Sicilie, pur rappresentando soltanto il 36,7 per cento della popolazione di tutta la penisola italiana, occupavano nell’industria una forza-lavoro pari al 51 per cento (oltre un milione e seicentomila unità) di quella (tre milioni e 131mila) complessiva di tutti gli stati peninsulari. E fra qualche puntata vedremo quali erano i settori industriali più floridi.

Intanto, però, possiamo aggiungere che, nella sua fase d’avvio, questo processo di industrializzazione ebbe bisogno, soprattutto per consentire alle industrie nascenti di conquistare margini di competitività, di protezioni doganali, come quelle esistenti in altri Stati e non solo in Italia. Una strategia di difesa (o forse sarebbe meglio definirla di sviluppo?) che cominciò ad essere alleggerita a cominciare dal 1846, perché nel frattempo era insorta l’esigenza di far sì che l’industria borbonica, almeno quella che aveva raggiunto un livello di maturità tale da consentirle il salto di qualità, potesse trovare spazio nel sistema commerciale europeo. Da qui, la sottoscrizione di sostanziosi trattati commerciali con gli altri Paesi d’Europa.

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