Super Sud, un tuffo nella storia: Il 22enne Carlo III viene proclamato Re di Napoli. Si apre l’era dei Borbone

di Redazione

Come abbiamo appena visto, la designazione, da parte di Carlo d’Asburgo, di Filippo d’Angiò, nipote di Luigi XIV, a suo successore nei regni asburgici dell’Italia del Sud e la proclamazione ufficiale dell’erede – che qualche giorno prima dell’incoronazione aveva sposato Maria Gabriella di Savoia – a re di Napoli, Sicilia e Sardegna, scatenò in Spagna una terribile guerra di successione che vide scendere in campo tutte le grandi potenze europee, contro suo nonno Luigi.

Una guerra che fu combattuta su diversi fronti, fuori e dentro il territorio europeo. Una guerra che tra alterne vicende, tra trattati di pace stilati e violati, con conseguenti ripetute cessazioni e riprese del conflitto, si protrasse per ben oltre 30 anni.

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Di questi tre decenni di fuoco, però, eviteremo di ripercorrere il tragitto. Da una parte perché interessano solo in maniera indiretta i regni dell’Italia del Sud e dall’altra perché significherebbe appesantire ulteriormente il contenuto di questo lavoro. Sicché, eccone – per completezza di trattazione – soltanto le date salienti.

1703: le potenze europee contrappongono al vecchio Luigi, l’arciduca Carlo d’Asburgo.

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1705: Carlo d’Asburgo, appoggiato dalla flotta inglese, conquista Barcellona e vi s’insedia.

1707: Filippo V, con l’aiuto del duca di Berwich, James Fitzjames, figlio di re Giacomo d’Inghilterra, avvia una controffensiva e riconquista buona parte della Spagna.

1708: Filippo, attaccato dalla flotta anglo-olandese, perde Sardegna, Regno di Napoli e Minorca.

1709: cominciano a L’Aja le trattative di pace.

1711: muore l’imperatore Giuseppe I, gli succede Carlo d’Asburgo.

1713: viene sottoscritto il trattato di Utrecht. Filippo viene riconosciuto Re di Spagna ma deve cedere i Paesi Bassi austriaci, il Lussemburgo e gli Stati italiani, e deve, inoltre, rinunciare ai propri diritti di successione in Francia.

1720: viene firmata la pace dell’Aja, Filippo è costretto a rinunciare ai Regni di Sardegna, Sicilia e Napoli ma ottiene il diritto di successione sul trono di Parma, per il figlio Carlo.

1724: Filippo abdica in favore del primogenito Luigi che, però, muore poco dopo e lui si ritrova costretto a riprendere le redini del governo.

1731: Carlo si insedia come regnante nel ducato di Parma. Intanto l’anziano sovrano rilancia il vecchio progetto di ridimensionamento della potenza degli Asburgo in Italia, per cui scoppiata la guerra di successione polacca, firma un’alleanza con Francia ed i Savoia, per scacciare gli austriaci dall’Italia ed ottenere il Regno di Napoli per un altro dei suoi figli.

1734: Carlo, dopo aver ripetutamente sconfitto gli austriaci, conquista i Regni di Napoli e di Sicilia.

1735: la guerra si conclude, viene sottoscritto il trattato di Vienna. Carlo rinuncia a Parma e viene proclamato Re di Napoli, assumendo il nome di Carlo III.

Siamo così arrivati alla famiglia che più di ogni altra – se non per quantità, certamente per la qualità del suo governo – ha segnato la storia e le vicende dei Regni dell’Italia meridionale: i Borbone.

Il giovane sovrano mise subito mano alla riorganizzazione socio-ecoonomico-amministrativva del Regno

Il primo atto politico di cui si rese protagonista il nuovo sovrano, che al momento di salire al trono aveva appena 22 anni ed usciva dall’esperienza di governo maturata a Parma, fu quello della riorganizzazione socio-economico-amministrativa del trono, appena ottenuto. Per Napoli, iniziò un periodo di grande fervore culturale.

La fontana della Reggia di Caserta

Il sovrano chiamò nella capitale del Mezzogiorno uno dei maggiori architetti dell’epoca, Luigi Vanvitelli, e gli affidò l’incarico di costruire la reggia di Caserta, i cui lavori di realizzazione cominciarono nel 1750. Ma puntò anche a ridare nuova linfa all’Università.

Tanto più che, in questo periodo, Napoli ribolliva di fermenti culturali e di tantissimi uomini di grande spessore. Fra questi Ferdinando Galiani, economista di valore, che, dopo aver scritto il saggio ‘Della moneta’, entrò in contatto a Parigi con i grandi illuministi francesi che lo tenevano nella massima considerazione, e poi, tornato a Napoli s’impegnò nella riforma dell’amministrazione. Degno di essere ricordato ai posteri anche Ludovico Antonio Muratori, storico e letterato, grande assemblatore di documenti e scritti relativi alla storia d’Italia.

Ma la cultura napoletana dell’epoca era arricchita anche dalla presenza di alcuni fra i più grandi illuministi del regno come Antonio Genovesi, un sacerdote che, dopo aver insegnato morale dal 1754, insegnò commercio nell’Università di Napoli, segnalandosi fautore di moderate riforme economiche ed amministrative, o come Gaetano Filangieri, allievo del Genovesi e giurista insigne, punto di riferimento dell’illuminismo napoletano, oltre a tanti altri ancora.

Quando Carlo fu proclamato Re delle Due Sicilie, il regno non attraversava un momento di particolare fulgore. Anzi, vittima dell’inerte politica vicereale austriaca, si ritrovava in una condizione di quasi oscurantismo. Il commercio era praticamente fermo, da un lato per le ricorrenti carestie, dall’altro per il blocco dei traffici, dovuto anche al fatto che non si costruivano strade dai tempi dei romani. Bisognò, quindi, porre mano alla trasformazione dell’organizzazione giuridica e politica da quella di vicereame a quella di regno.

Con la riorganizzazione, Napoli, la capitale del Regno, trasse notevoli vantaggi

Ferdinando Fuga

Riorganizzazione dalla quale la capitale trasse enormi benefici, perché fu dotata di servizi (vedi strade, fogne, acquedotti, ecc.) che fino a quel momento erano praticamente inesistenti; il re poi sistemò l’edilizia pubblica e commissionò all’architetto Ferdinando Fuga l’Albergo dei poveri.

Col venticinquennio di regno del re Carlo si può dire che sia cominciata effettivamente la vera storia del Regno delle Due Sicilie. E questo, soprattutto, perché fu lui il primo a rendersi conto di quali fossero i problemi che bisognava affrontare, molti dei quali, purtroppo, sono causa ed origine di quella questione meridionale di cui si continua a dibattere senza riuscire a trovare soluzioni.

Nel mettere, dunque, a punto riforma e costituzione della Stato, Carlo si preoccupò anzitutto di saggiare quali possibilità vi fossero di arrivare a un accordo fra le varie classi sociali; puntò ad un’intesa con il clero per limitarne lo strapotere ed evitare che brigantaggio ed altri reati contro lo Stato continuassero a trovare protezione nella cosiddetta immunità ecclesiastica; mirò a realizzare una politica antifeudale capace di bilanciare la prepotenza dei signori nei propri feudi.

Insomma cercò, come disse il Venturi, di adottare «il giannonismo senza Giannone». Una politica che, naturalmente, trovò tantissimi avversari: e proprio in forza delle tante inimicizie che questa gli procurò, l’opera del monarca va guardata ancora con maggior rispetto ed ammirazione.

E già prima che egli, per questioni dinastiche, fosse costretto a lasciare il Regno delle Due Sicilie, la sua politica cominciò a mettere in evidenza i suoi benefìci. Lo stesso Vincenzo Colletta, antiborbonico irriducibile, fu costretto ad ammettere che l’erario pubblico aveva visto triplicare le proprie entrate. Il borbone favorì i commercianti anche a costo di lottare contro l’opposizione popolare in quanto il governo spesso si serviva di mercanti stranieri ed ebrei.

Inoltre ampliò e modernizzò le strutture portuali, dando così notevole impulso ai traffici marittimi. Il che contribuì a rilanciare anche il turismo. La capitale, come dice il Doria, si «mise al livello delle grandi capitali, come Parigi, Madrid, Londra e Vienna; ne ringiovanì con le grandi opere del primo borbone l’aspetto esteriore; le diede un nuovo fremito di vita, una più grande gioia di vivere e di progredire».

Sicché, quando nel 1759 Carlo di Borbone lasciò il Regno delle Due Sicilie per assumere il trono di Spagna, lasciò dietro di sé un grande rimpianto. I napoletani lo consideravano – a detta del Doria – «una specie di padre della patria». Era stato, infatti, un sovrano che aveva saputo ridare prestigio e ruolo al proprio regno.

In politica estera era stato di una coerenza estrema, mentre in quella interna fermo ed autoritario al punto giusto: aveva riorganizzato lo Stato ed ottenuto risultati positivi in campo amministrativo, aveva abbellito Napoli, favorito e protetto la cultura, aveva dato impulso all’industria ed al commercio. Sarebbe potuto andare via, senza lasciare fra il popolo una lunga scia di rimpianti?

Gli successe il figlio Ferdinando affiancato, perchè minorenne, da un comitato di reggenza, diretto dal riformatore Bernardo Tanucci

Ferdinando I

A succedergli fu il figlio Ferdinando che, in quanto minorenne, fu affiancato da un comitato di reggenza, guidato da Bernardo Tanucci, un riformatore che era già stato il consigliere più fidato ed ascoltato del padre. Questi proseguì la politica di austerità e contenimento delle spese, già avviata sotto il regno di Carlo al quale, come del resto a se stesso, aveva ridotto l’appannaggio del 50 per cento.

Questo, però, non fu sufficiente ad evitare che, nel 1764, Napoli fosse funestata da una carestia e dall’epidemia che ne conseguì e che fece tantissime vittime, nonostante Carlo III dalla Spagna, continuasse ad inviare grosse forniture di grano. Nel 1767, diventato finalmente maggiorenne Ferdinando, si esaurì il compito del comitato di reggenza, ma non si cancellò l’influenza del Tanucci che da responsabile del comitato divenne capo del nascente Consiglio di Stato.

In quello stesso anno, il primo ministro riuscì a convincere il re ad espellere dai territori del Regno le compagnie di Gesù e l’anno successivo a spingerlo ad invadere il territorio dello Stato Pontificio, per far capire al Papa che era arrivato il momento di smetterla con le minacce al duca di Parma.

Ma subito dopo, in seguito ai contrasti insorti fra lui e la regina Maria Carolina, fu allontanato e sostituito con un siciliano, il marchese della Sambuca, il cui operato suscitò, però, tantissime critiche, anche a causa della sua onestà tutt’altro che cristallina. Sicché fu a sua volta ‘licenziato’ e sostituito dall’illuminista napoletano Domenico Caracciolo che ebbe il grande merito di recuperare un rapporto accettabile anche con lo Stato Pontificio.

Nel frattempo l’opera di riorganizzazione del Regno delle Due Sicilie proseguiva secondo le indicazioni della regina che, volendo modernizzare e rendere più efficiente la Marina, fece arrivare dal granducato di Toscana quel lord John Acton destinato a diventare negli ultimi decenni del diciottesimo secolo uno dei protagonisti più discussi della vita del Regno. Non fosse altro per l’influenza che riuscì ad avere sulle scelte di Maria Carolina e, quindi, sulle vicende del Regno. E questo, nonostante la contrarietà di Carlo III, assolutamente avverso all’affidamento di incarichi sempre più importanti (ministro della Marina, poi ministro della Guerra) ad uno straniero.

Domenico Caracciolo

La scalata al potere dell’inglese protetto dalla regina aprì un vero e proprio solco fra il Re di Spagna e la nuora e logorò i rapporti fra il padre e Ferdinando IV delle Due Sicilie. Rapporti che Caracciolo provò a ricucire – così come aveva fatto con lo Stato della Chiesa – senza, però, riuscirci. Carlo, infatti, fu durissimo. Non aveva niente contro il figlio ma gli addebitava l’eccessiva ingerenza della moglie nelle questioni dello Stato e l’inarrestabile importanza che lord Acton andava via via conquistando ai vertici del Regno.

Sicché, se Ferdinando voleva davvero riconquistarne la stima e la fiducia, doveva cominciare con il destituire l’inglese da tutti gli incarichi. Il che, naturalmente, non si verificò ed i rapporti fra Carlo III e Federico IV continuarono ad essere freddi e formali.

Il peggio è che in tutto questo il sovrano, pur non perdendo di vista le questioni del regno, continuava a lasciar fare al suo primo ministro e sembrava rifuggire qualsiasi responsabilità di governo, rifugiandosi infine nella sua utopistica “repubblica di S. Leucio”, paesino in provincia di Caserta in cui Ferdinando IV diede vita ad un moderno centro industriale per la tessitura della seta, notissimo nel mondo ancora oggi. E questo, pur senza menzionare che, sempre nel casertano, diede grande impulso al commercio ed alla produzione del latte.

Ma intanto cominciavano a serpeggiare i primi sentimenti di ostilità nei confronti della monarchia

Nel frattempo, mentre svanivano gli effetti positivi prodotti dal processo riformistico innescato da Re Carlo e proseguito dai ministri Bernardo Tanucci e Domenico Caracciolo, nel popolo e, in particolare, fra gli intellettuali allievi dell’Intieri, di Genovesi, Galiani e Filangieri (che, pure aborrivano la violenza contro il potere) cominciarono a serpeggiare sentimenti di ostilità nei confronti di una monarchia che appariva sempre più dispotica e lontana dalla gente. Sentimenti che ben presto sfociarono in aperta ostilità, alimentarono complotti e diedero la stura alla rivolta contro la monarchia d’ancien régime.

Per ripararsi dalla bufera in arrivo, allora, Ferdinando aderì ad una coalizione antifrancese e, quando, nel 1796, Napoleone fondò la Repubblica Transpadana, fu costretto a sottoscrivere un pesantissimo armistizio. Alla ripresa delle ostilità, tra il 1798 ed il 1799, le truppe transalpine, guidate dal generale Championet invasero il Regno – dove da tempo erano attivi diversi circoli giacobini animati da intellettuali, nobili e professionisti – e lo deposero, mentre i patrioti napoletani proclamarono il 21 gennaio 1799 in Castel Sant’Elmo la Repubblica Partenopea una ed indivisibile.

Proclamazione avvenuta (caso mai verificatosi, prima di allora, nelle Repubbliche giacobine, nate in Italia nel triennio 1796-98) ancora prima che le truppe francesi facessero il loro ingresso in città. I reali fuggirono a Palermo su un brigantino scortato da navi inglesi; nel frattempo a Napoli le bande armate sanfediste, sollecitate dal cardinale Ruffo, scatenarono la reazione popolare contro i patrioti liberali. Quindi Re Ferdinando aderì alla seconda coalizione antifrancese e riuscì, grazie all’appoggio di lord Nelson, a riottenere il trono. Ma nel 1806 fu nuovamente deposto da Napoleone che invase ancora una volta il Regno.

Sempre grazie all’aiuto della flotta inglese, tornò a rifugiarsi in Sicilia, da dove assistette passivamente agli ultimi avvenimenti della vicenda napoleonica ed al breve regno napoletano di Giocchino Murat, senza poter intervenire neanche quando i carbonari di Napoli organizzarono la rivolta antifrancese. Quindi, nel maggio del 1815, dopo che gli austriaci ebbero definitivamente sconfitto i francesi, riottenne sia il trono che il Regno delle Due Sicilie.

Ferdinando II

Fu il ritorno definitivo dei Borbone sul trono. Una presenza che, pur tra alterne vicissitudini (i moti carbonari del 1820, guidati da Guglielmo Pepe; concessioni e ritiri di costituzioni liberali ed altri 3 sovrani, vale a dire Francesco, Ferdinando II detto “re bomba”, e Francesco II, passato alla storia come Franceschiello) durò ininterrottamente fino al 1860, quando proprio Francesco II fu costretto, di fronte all’incalzante avanzata dei “mille” di Giuseppe Garibaldi, a ritirarsi a Gaeta e qui, sconfitto definitivamente, ad abdicare ed a lasciare che l’eroe dei due mondi consegnasse il Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele II, completando così il processo di unificazione del Paese.

E così quel Regno delle Due Sicilie i cui scrittori, già oltre un secolo prima, avevano immaginato uno Stato nazionale che comprendesse l’intero territorio compreso fra le Alpi ed il Capo Passero, quel reame che con le rosse prore amalfitane, i suoi mercanti, le sue bussole, il proprio codice ed il suo tarì, già solcava i mari d’Oriente, quando il Leone di San Marco e quello di San Giorgio non avevano ancora messa la testa fuori dalle loro terre, regalando al mondo quella civiltà borghese e mercantile che avrebbe consentito il superamento della società feudale, quel Regno fu costretto a cedere la propria sovranità ad una monarchia, quella sabauda che veniva dalla lontana terra di Piemonte.

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