La sovranità appartiene al popolo ma qualcuno gliel’ha tolta

Nuccio Carrara - Sud - ilSud24
Nuccio Carrara
Già deputato e sottosegretario
alle riforme istituzionali

La sovranità appartiene al popolo”, così recita la nostra Costituzione. E lì tutti a crederci, ovviamente, salvo verificare che nella realtà le cose non stanno proprio così. Già i costituenti si sono premurati di mettere nero su bianco che il popolo è sì sovrano, ma può esercitare la sua sovranità solo «nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione».

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Le forme sono quelle tipiche di una democrazia parlamentare di stampo liberale. Il popolo sovrano elegge i suoi rappresentanti che poi in parlamento decidono senza vincoli di mandato, a prescindere dalla reale volontà popolare. In altri termini, il “sovrano”, seppure assiso in trono, potrà restare a guardare, magari mugugnando se qualcosa non va, ma sostanzialmente impotente. Dovrà aspettare il prossimo turno elettorale per scegliere eventualmente nuovi delegati. La sovranità popolare, quindi, inizia e finisce con l’espressione del voto.

La chiamano democrazia, potere del popolo, ma in effetti non spetta al demos (popolo) ma al parlamento decidere chi dovrà governare e con quale maggioranza. Le leggi elettorali, dopo il referendum del 2009, hanno tentato, in qualche modo, di consentire al popolo di scegliere da quali forze politiche farsi governare, ma negli ultimi dieci anni questa facoltà è stata sostanzialmente disattivata.

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Bisognerà modificare la Costituzione per consentire al “sovrano” il potere di scegliere il capo del Governo. Una sorta di minimo sindacale non ancora riconosciuto.

Per quanto riguarda i “limiti” imposti alla sovranità popolare, ve ne sono alcuni che appaiono innocui e che invece, nel tempo, si sono rivelati forieri di ulteriori limiti. È il caso del combinato disposto degli articoli 10 e 11 della Costituzione. Il primo subordina l’ordinamento giuridico italiano al “diritto internazionale generalmente riconosciuto». In questo caso il “popolo sovrano” non è più fonte primaria del diritto, ma deve “conformarsi” a norme esterne che si presume siano accettate da tutti.

L’art. 11 asserisce che l’Italia, in nome della pace e della giustizia tra le Nazioni, «consente limitazioni della sovranità», purché «in condizioni di parità», e «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali» indirizzate a tali nobili scopi.

Detto questo, è facile capire come, attraverso una miriade di trattati internazionali, l’Italia si trovi dentro una infinità di organismi internazionali che, inevitabilmente, ne condizionano le politiche.

Poco sovranamente, il popolo non può intervenire nelle scelte di politica internazionale, e a vietargli di ingerirsi negli affari esteri è proprio quella stessa Costituzione che lo gratifica del titolo di sovrano. Il potere di ratificare i trattati è dato esclusivamente al parlamento (art. 80 Cost.) ed al riguardo è espressamente previsto il divieto di referendum popolare (art. 75).

Tanto basta per fare venire qualche dubbio sul fatto che la nostra Costituzione sia stata definita «la più bella del mondo». Ma c’è di più e di meglio. Nel 2001 è entrata in vigore la riforma costituzionale, voluta dall’allora governo di centrosinistra che, modificando l’art. 117, ha vietato al parlamento di modificare in tutto o in parte i trattati internazionali, neppure attraverso un esplicito indirizzo che obblighi il governo a riconsiderare trattati che si siano rivelati lesivi degli interessi nazionali.

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I «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» acquistano rilievo costituzionale e di fatto diventano incontrovertibili. In realtà si può contravvenire agli obblighi internazionali, ma solo se ad imporcelo sia qualche altro organismo internazionale finalizzato alla pace e alla giustizia. È già successo con la guerra nella ex Jugoslavia e in Libia, agli ordini della Nato. Tanto basti a chiarire come siano stringenti le «condizioni di parità» con gli stati militarmente ed economicamente più forti, che decidono per noi a prescindere.

Ma il capolavoro dei capolavori è risultato l’Unione europea. Passo dopo passo, trattato dopo trattato, ci siamo ritrovati in una gabbia dove la sovranità popolare ha perso di significato ed il popolo è stato di fatto ridotto a suddito di un potere che lo trascende e lo sfrutta.

Se la nostra Costituzione aveva già tolto al popolo sovrano la possibilità di pronunciarsi sui provvedimenti legislativi in materia economica (art. 75), oggi si trova in balia dei burocrati non eletti da nessuno a Bruxelles, Strasburgo e Francoforte. Già nel 2013, l’allora governatore della BCE, non si sentiva intimorito dai risultati elettorali che sarebbero potuti derivare dalle elezioni politiche di quell’anno, sostenendo che ormai l’Italia aveva inserito «il pilota automatico» grazie alle riforme di Monti (pareggio di bilancio in Costituzione) ed ai vincoli esterni nati a Maastricht e proseguiti fino al Patto di stabilità ed al Fiscal compact. «Il processo delle riforme continua». Il colore dei governi non sarebbe stato più rilevante e con esso il verdetto elettorale.

Oggi, soffocati dalla moneta unica, sostanzialmente privata e straniera, presa necessariamente a prestito, siamo condannati al debito perpetuo. Per sovraccarico di masochismo, l’Italia spera nel soccorso di quel sistema basato sull’usura che si chiama Unione europea, che l’ha privata degli scampoli di sovranità che le erano rimasti e che, con il “successo” di Conte per il Recovery Fund, si è consegnata mani e piedi ai suoi strozzini. Ma eravamo stati messi in guardia proprio da un Presidente della Commissione EU, Manuel Barroso: «La ragione per cui abbiamo bisogno dell’Unione Europea è proprio perché non è democratica».
Adesso tutto è chiaro.

Nuccio Carrara
Già deputato e sottosegretario
alle riforme istituzionali

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