In Italia, il referendum abrogativo nasce come espressione massima della sovranità popolare, un meccanismo di controllo diretto dei cittadini sull’operato del legislatore. Ma la sua storia concreta ci racconta una parabola diversa: da nobile strumento di partecipazione, è diventato sempre più spesso un’arma nelle mani di partiti e gruppi organizzati per condurre battaglie politiche contro il governo in carica o per ragioni puramente identitarie.
L’uso strumentale del referendum: una prassi trasversale
- 1991: Craxi e l’«andate al mare»
- 2003: centrosinistra e centrodestra uniti… nell’astensione
- 2011: il governo Berlusconi e l’invito soft all’astensione
- 2016: Renzi, Napolitano e la sinistra che invita all’astensione
- Il quorum: il vero ago della bilancia
- Il caso del 2025: referendum o mobilitazione politica?
- Un boomerang per le opposizioni?
Nelle ultime settimane, in vista dei referendum dell’8 e 9 giugno 2025 promossi dalla CGIL, i partiti di governo – da Forza Italia a Fratelli d’Italia, passando per la Lega – hanno invitato apertamente all’astensione. Un atteggiamento che ha suscitato le critiche della sinistra, la quale ha accusato il governo di delegittimare la partecipazione democratica.
Tuttavia, questa posizione non solo è perfettamente legittima dal punto di vista costituzionale, ma ha numerosi precedenti illustri nella storia repubblicana. L’astensionismo referendario non è mai stato appannaggio esclusivo di un’area politica, anzi: è stato usato da destra e da sinistra, da governi e da opposizioni, da ministri e da presidenti della Repubblica.
1991: Craxi e l’«andate al mare»
Il primo grande caso di campagna per l’astensione fu quello del leader socialista Bettino Craxi, che nel 1991 invitò gli italiani a disertare le urne per un referendum elettorale promosso da Mario Segni. Il quesito – apparentemente tecnico – chiedeva di ridurre a una sola le preferenze multiple nelle schede elettorali, ma puntava in realtà a scardinare l’assetto proporzionale del sistema.
Craxi bollò il referendum come «incostituzionalissimo» e «ubriachezza politica molesta». Lo seguirono la Lega di Umberto Bossi e una parte della DC, ma nonostante tutto l’affluenza superò il 62% e vinsero i Sì con il 95%, sancendo l’inizio del tramonto della Prima Repubblica.
2003: centrosinistra e centrodestra uniti… nell’astensione
In un raro esempio di convergenza politica, nel 2003 sia il centrodestra al governo (con Berlusconi) sia parte del centrosinistra (in particolare i DS di Fassino e la Margherita di Rutelli) invitarono all’astensione su un referendum proposto da Rifondazione Comunista. Il quesito chiedeva di estendere l’articolo 18 anche alle piccole imprese.
Il referendum fu definito «dannoso» e «inutile» da molti dirigenti del tempo, compresi Sergio Cofferati (ex leader CGIL). L’affluenza si fermò al 25%: un chiaro esempio di come anche la sinistra istituzionale abbia usato il non voto come strumento legittimo di opposizione a un’iniziativa ritenuta sbagliata.
2011: il governo Berlusconi e l’invito soft all’astensione
Quattro referendum su acqua pubblica, energia nucleare e legittimo impedimento furono promossi nel 2011. Inizialmente il governo Berlusconi lasciò libertà di scelta, ma pochi giorni prima del voto, lo stesso Berlusconi dichiarò che non si sarebbe recato alle urne. Nonostante questo, partecipò il 54,8% degli aventi diritto e vinsero i Sì. L’esito rappresentò il primo vero colpo alla stabilità del governo, che pochi mesi dopo sarebbe caduto.
2016: Renzi, Napolitano e la sinistra che invita all’astensione
Il referendum sulle «trivelle», voluto da regioni e movimenti ambientalisti, puntava a vietare il rinnovo delle concessioni estrattive entro le 12 miglia marine. Matteo Renzi, allora presidente del Consiglio, definì l’iniziativa «una bufala» e invitò apertamente all’astensione.
Lo fece citando Giorgio Napolitano, che dichiarò che non votare fosse un modo legittimo per esprimersi sull’inutilità del quesito. Le opposizioni (tra cui Lega, M5S e FdI) accusarono il governo di sabotare la partecipazione democratica. Anche in questo caso, l’affluenza (31,2%) non superò il quorum.
Il quorum: il vero ago della bilancia
Dalla metà degli anni ’90 ad oggi, su 29 referendum abrogativi solo quattro hanno superato il quorum. I cittadini italiani hanno dimostrato, nei fatti, di considerare con diffidenza questo strumento, percepito sempre più come espressione di una minoranza militante piuttosto che di una reale esigenza collettiva. A fronte di 77 referendum nella storia repubblicana, solo 39 hanno raggiunto la soglia minima di partecipazione, la stragrande maggioranza tra il 1974 e il 1995.
Il caso del 2025: referendum o mobilitazione politica?
Alla luce di questa storia, è legittimo domandarsi quale sia il vero obiettivo dei referendum promossi per giugno 2025. I quesiti, spinti principalmente dalla CGIL e sostenuti dalle opposizioni di sinistra, appaiono più come un pretesto per mantenere viva l’attenzione su una parte politica in difficoltà, piuttosto che un reale tentativo di cambiamento legislativo.
È evidente l’intento di mobilitare una base militante – quella della sinistra sindacale e ideologica – più che parlare a tutto il Paese. In questo contesto, la posizione del governo Meloni e dei partiti di maggioranza, che invitano apertamente all’astensione, è del tutto coerente e legittima. Non si tratta di un sabotaggio del processo democratico, ma di una strategia trasparente e perfettamente ammessa dalla Costituzione, esattamente come avvenuto in molti altri casi.
Anzi, è proprio l’iniziativa delle opposizioni a presentarsi come un tentativo malcelato di usare la democrazia diretta come arma di lotta politica: non per migliorare il sistema, ma per cercare uno scontro frontale contro l’esecutivo e provare a contarsi fuori dai canali istituzionali.
Un boomerang per le opposizioni?
Il più probabile epilogo di questa tornata referendaria sarà l’ennesimo mancato raggiungimento del quorum. Ma stavolta l’effetto boomerang potrebbe essere ancora più significativo: le opposizioni, nel tentativo di dimostrare forza e compattezza, potrebbero ritrovarsi a contare goffamente e pubblicamente il loro peso reale, che difficilmente supererà la soglia della minoranza organizzata.
Questo referendum rischia così di rivelarsi un clamoroso autogol: invece di rafforzare una proposta politica alternativa, finirà per certificare l’assenza di una visione comune e l’incapacità di parlare a un’Italia che, ormai, chiede concretezza, pragmatismo e stabilità. Non slogan, non propaganda, e tantomeno quesiti referendari usati come specchietto per le allodole.