Dissociazione e ammissioni: così i boss evitano l’ergastolo e godono dei permessi premio

Gli Amato-Pagano hanno fatto da apripista. Più di recente è stata la volta dei killer di Ponticelli e San Giorgio a Cremano

Una lettera. È così che il boss Umberto Luongo comunicò, tramite i suoi avvocati difensori, l’intenzione di prendere le distanze dalla camorra. Nel documento, recapitato ai pubblici ministeri che lo accusavano di essere uno dei mandanti dell’omicidio di Luigi Mignano, cognato dei boss Ciro Rinaldi, il boss di San Giorgio a Cremano non solo ammise i propri errori ma manifestò anche l’intenzione di «risarcire i familiari delle vittime per le perdite subite». Eppure, l’apparente ravvedimento, ipotizzarono gli inquirenti della Dda, non sembrava essere il preludio a un pieno pentimento quanto piuttosto il primo passo di una sottile strategia per evitare il carcere a vita.

La sentenza della Corte di Cassazione

Il tutto nasce dalla sentenza emessa dalla Corte di Cassazione nel gennaio del 2020 in base alla quale anche chi non collabora con la giustizia può beneficiare dei permessi premio a condizione che abbia tagliato qualsiasi legame con la criminalità organizzata. Tradotto, significa dire che Luongo, dissociandosi e limitandosi ad ammettere i propri addebiti, avrebbe messo in conto la possibilità di tornare in libertà per brevi periodi.

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I boss degli Amato-Pagano

Non è il solo che avrebbe utilizzato la strategia della ‘dissociazione’ per evitare il carcere a vita. Ben prima che gli ermellini si esprimessero sul cosiddetto ergastolo ostativo, a inaugurare la stagione delle dissociazioni sono stati i boss degli Amato-Pagano. Nel 2016, Cesare Pagano, padrino dell’organizzazione criminale annunciò in aula di aver preso le distanze dalla cosca, seguito poco dopo da numerosi suoi affiliati.

Nel dicembre 2019 fu invece la volta di Roberto Manganiello, ras delle Case Celesti di Secondigliano e anche lui legato alla galassia scissionista del clan Di Lauro. Manganiello, nel corso del processo che lo vedeva imputato per la morte di Ciro Nocerino, dichiarò senza mezzi termini, di aver chiuso con la camorra. A maggio del 2020, invece, fu la volta di Michele Minichini, killer della cosca Rinaldi e responsabile di diversi omicidi durante la faida con i Mazzarella-D’Amico. Anche lui si disse redento per i suoi trascorsi e confermò di aver ucciso Vincenzo De Bernardo, ras dei Mazzarella trucidato a Somma Vesuviana nel 2015. Un’ammissione che gli permise di evitare la condanna all’ergastolo per quel delitto.

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Le decine di boss della camorra che hanno deciso di dissociarsi dalla camorra potrebbero segnare un punto di svolta nella lotta alla criminalità. Le decisioni della Corte di Cassazione che ha riconosciuto benefici anche a quei padrini che non collaborano con la giustizia ha spinto numerosi capi clan ad ammettere le proprie responsabilità personali in modo da evitare l’ergastolo. Non un pentimento vero e proprio, però, perché i boss, nel riconoscere le proprie colpe, non accusano nessun altro né forniscono elementi utili alle indagini per fare luce sugli omicidi ancora irrisolti. Semplicemente, si limitano a confermare quanto già ricostruito nel corso delle indagini che li hanno portati dietro le sbarre.

Le perplessità

Una decisione, quella degli ermellini, che ha destato più di una perplessità da parte di quegli inquirenti che si occupano della lotta alle mafie e che già trent’anni fa si erano opposti con forza al tentativo della camorra di avviare una trattativa con lo Stato affinché, in cambio della resa, ai boss fosse riconosciuto lo status di dissociato così come avveniva per gli appartenenti ai movimenti eversivi. Un tentativo di intesa che è stato ricostruito meticolosamente da numerosi collaboratori di giustizia e che ebbe un illustre promotore nell’allora vescovo di Acerra, don Antonio Riboldi, a lungo impegnato in prima linea contro la criminalità organizzata. I boss lo avvicinarono e gli proposero di farsi latore di un messaggio.

I clan avrebbero deposto le armi e si sarebbero arresi allo Stato a condizione che fossero cancellati gli ergastoli ai boss e che i patrimoni accumulati non fossero sequestrati. In cambio i padrini avrebbero ammesso le loro responsabilità personali. In pratica, i capi della camorra, non solo di Napoli, chiedevano allo Stato il riconoscimento della ‘dissociazione’. A riprova della loro buona fede, i padrini fecero trovare anche un intero arsenale nascosto all’interno di un’auto. Tuttavia, la presunta trattativa fallì.

Innanzitutto, per l’opposizione delle procure Antimafia che vedevano nella dissociazione dei boss solo un tentativo di evitare le condanne più pesanti. In seguito, per il rifiuto di alcuni padrini di trattare a qualsiasi livello con gli organi dello Stato.

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