Edilizia a Napoli nel ‘400: quando i nobili si affidavano ai «Maestri di Muro»

Tendenze progettuali e tecniche costruttive delle dimore nobiliari durante il periodo Angioino-Aragonese

Casa, dimora, rifugio o tana, la semantica è indifferente; il principio è che già dalla notte dei tempi la prima grande esigenza degli essere viventi è sempre stata quella di proteggere se stessi e la propria comunità di appartenenza organizzando la propria esistenza. Dalle api alle formiche, dagli orsi ad altri mammiferi, tutti gli esseri viventi hanno sempre percepito questo bisogno, sviluppandolo di pari passo all’evoluzione della propria specie. L’essere umano è certamente l’esempio evidente di quanto illimitata possa essere tale evoluzione.

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Nella propria scala dei bisogni, lo psicologo Abrham Maslow pone la casa, quale dogma di protezione e sicurezza al secondo gradino della propria piramide. Per uno studioso conoscere i principi progettuali, le tecniche costruttive e l’uso dei materiali significa recuperare una vastità di informazioni in grado di approfondire gli aspetti culturali e sociologici delle grandi comunità. Napoli è certamente un ambitissimo laboratorio di ricerca in tal senso.

Anche un osservatore poco attento, passeggiando con superficiale attenzione per il dedalo di vie e cardini del centro antico noterà come la città sia un vasto aggregato di stratificazioni costruttive che, ancora oggi continuano ad emergere in superfice a testimonianza di uno sviluppo urbanistico lungo, curioso e ingegnoso. In una città che era già «metropoli» tra il XIV ed il XV secolo la necessità di realizzare case era notevole per tutte le classi di abitanti.

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Il legame tra la nobiltà ed il popolo

Osservando attentamente i sontuosi palazzi dei feudatari meridionali fatti costruire durante il periodo Angioino e Aragonese è evidente il legame forte che esisteva tra la nobiltà ed il popolo, un legame in grado di contaminare usi e tendenze di due realtà tra loro del tutto distanti. Era doveroso per i grandi feudatari dell’epoca, abitare nella capitale. Purtroppo nel centro della città, gli spazi a disposizione erano pochi e dalle superfici limitate. Pur di realizzare le proprie dimore all’interno delle mura cittadine si accettava di acquistare lotti spesso occupati da vecchie fabbriche, sulle quali si adattavano i nuovi progetti.

I suoli vergini erano disponibili solo fuori delle mura, ma questo contrastava il desiderio di ofanità nel realizzare la propria dimora quanto più vicino ai palazzi del potere. Per questo motivo i grandi feudatari erano tenuti ad adeguarsi a progetti spesso ridimensionati rispetto a quelli voluti. Grande espressione veniva data ai portali che sintetizzavano la potenza familiare del proprietario, essi erano realizzati in pregiato legno spesso decorato con bassorilievi e con ampie mostre di piperno e marmo scolpite con pregio; esempi sono quelli di Palazzo Filomarino della Rocca in via Benedetto Croce o quello di Palazzo Petrucci a piazza San Domenico Maggiore.

Parlando di contaminazione era curioso è il fatto che la maggioranza di dette costruzioni non era frutto dell’ingegno di un architetto o di un ingegnere, ma dell’esperienza di bravi «Maestri di muro» come venivano definiti allora i mastri muratori tuttofare, una sorta di appaltatori ante-litteram. Il Signore feudale, mal sopportava le norme spaziali decise dal progettista, e quasi sempre non né condivideva le idee. La sua arroganza lo portava a non affidarsi quasi mai al progettista.

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Poche le dimore realizzate dagli architetti

Sono infatti poche le dimore private realizzate dagli architetti dell’epoca come Fanzago, Vaccaro, Sanfelice e Vanvitelli impegnati principalmente per opere pubbliche. Il motivo era il contrasto tra la voglia di ostentazione dell’aristocratico committente e la razionalità della figura intellettualmente autonoma del professionista. Spesso l’«architetto-servitore» era chiamato solo per adeguare vecchi progetti. Per quelli ex novo era lo stesso committente a fare da progettista.

Un raro caso di sana collaborazione professionale tra un architetto, in questo caso il Vanvitelli, e un nobile committente è quello nato per la realizzazione di Palazzo de’ Sangro di Casacalenda. C’è da dire che tale ritrosia ad affidarsi al progettista è frequente ancora oggi.

Ma come si costruiva nel XV secolo? Riferendoci alle tecniche, tutti i palazzi prevedevano delle fondamenta realizzate con blocchi di piperno, con la quale pietra venivano realizzati i componenti orizzontali come architravi e balconi a sbalzo. Le mura interne e perimetrali erano realizzate in blocchi di tufo segato a mano ricavato dalle cave di Pizzofalcone, Chiaiano o Vallone di San Rocco a Capodimonte. Spesso la pietra si ricavava direttamente dai suoli dove doveva ergersi l’edificio, in questo modo ci si trovava realizzato anche lo scavo necessario per ospitare le fondazioni e le cantine.

Le mura avevano uno spessore variabile che andava assottigliandosi man mano che si ergevano i piani superiori, mentre i solai erano realizzati quasi sempre a volta, molto raramente in travi di castagno e paconcelle vista la loro facile deperibilità, in quanto soggetti all’insediamento delle tèrmiti. Tra il trecento ed il quattrocento le fornaci introdussero le majoliche decorate, realizzate attraverso la cristallizzazione a fuoco di smalti decorati fusi su supporti in terracotta, vere opere d’arte che iniziarono a dare vita ad ambienti dai colori vivaci e brillanti.

I nobili erano oltretutto degli abili immobiliaristi

Quasi tutti i palazzi erano costruiti realizzando locali commerciali ai piani terra che dovevano fungere da rendita. Alcuni addirittura preferivano realizzare l’accesso al palazzo da un vicolo secondario per non perdere l’opportunità di lasciare spazio per un ulteriore locale commerciale sulla strada principale. Nei palazzi nobiliari viveva il Nobile con tutta la famiglia ed un ingente numero di maestranze. Il proprio appartamento nasceva al primo piano ed era sempre quello più sontuoso con metrature di diverse migliaia di mq per piano. Oggi tutte queste dimore, pur sempre in piedi risultano fortemente rimaneggiate e ridotte, frutto dell’ennesimo cambio epocale.

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