I social non sono neutrali e rischiano di rinchiuderci nel loro algoritmo

di Eugenio Preta

L’homo sapiens ha abbandonato senza criterio i libri e gli antichi canoni della conoscenza e si è trasformato velocemente in fruitore assoluto delle reti sociali detenute oggi, con una potenza sempre crescente, da Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft, i cosiddetti GAFAM.

Un’effettiva occupazione manu militari da parte dei GAFAM che, se con la costituzione di piattaforme dove la gente può andare a scambiarsi opinioni e idee ha costituito un progresso straordinario in termini di comunicazione, ha imposto però una forma inderogabile di pensiero politicamente corretto.

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Le piattaforme sociali non possono però essere neutrali: il modo in cui la gente si mette in relazione, il tipo di discorso che vi può essere espresso non è neutro perché esiste a priori una certa forma di preselezione e di edizione: la loro stessa natura le identifica come un ibrido tra il semplice imprenditore web e il vero editore per cui, prima di accedere all’offerta proposta, sarebbe necessario procedere a un’analisi approfondita per scoprire in che modo poter regolare gli scambi proprio per non cadere, da una parte nell’assenza totale di controllo che andrebbe a favorire gli eccessi, dall’altra in una censura preventiva che renderebbe una data rete, un media controllato.

Recentemente, a esempio, con l’elezione di Biden e la cacciata di Trump da Twitter, YouTube e dalla maggior parte delle piattaforme sociali, migliaia d’internauti si sono rivolti verso altre reti studiate per offrire loro un’alternativa, creando in definitiva solo comunità che interagiscono esclusivamente con i propri affini.

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Nell’illusione di poter cancellare tutte le opinioni che non condividono creano soltanto comunità impermeabili le une alle altre, degradando il dibattito pubblico.

La gente che non condivide le stesse idee non riesce più a parlarsi e soltanto chi va d’accordo riesce a scambiarsi, in una data rete, analisi ed opinioni. Ma ogni forma di censura non riuscirà mai a regolare il problema anzi soltanto ad accentuarlo: siamo arrivati al rifiuto di quel dibattito pubblico che è necessario per raggiungere forme di consenso politico che sono la base stessa della democrazia.

Le differenze di opinioni e l’esasperazione del dibattito pubblico sono fenomeni preesistenti alle stesse reti sociali. Prima la gente leggeva giornali che, alla fine, raccontavano tutti la stessa storia; era tutto più facile e la gente riusciva a interagire.

Le piattaforme sociali hanno fornito strumenti straordinari d’informazione e conoscenza ma hanno accentuato il fenomeno degli algoritmi, le cosiddette “bolle cognitive” che si rivolgono solo ai consimili cui raccomandano i gruppi e le persone con cui poter interagire e a cui parlare.

La diversità e il pluralismo delle fonti d’informazione oggi sono diventati più difficili di quanto non lo fossero mai stati prima; bisogna andare a esplorare in giro per la rete, ma è necessario anche essere esperti, altrimenti la rete a cui fate ricorso vi richiude nel suo algoritmo.

Da qualche tempo ormai non abbiamo più che la scelta di essere populisti, progressisti, complottisti o politicamente corretti, senza alcuna alternativa che pur esiste.

Il problema del nostro tempo rimane il suo manicheismo: riteniamo ormai che non ci possa essere più che il bianco o il nero, il vero o il falso; abbiamo dimenticato le differenze e la possibilità di coesistenza delle cose contraddittorie, forse abbiamo pure dimenticato che nessuno può avere il monopolio della verità.

Oggi si ha l’impressione di dover scegliere un campo, possibilmente neutro, una specie di approccio che ci lascia nell’indecisione per non dover essere definitivamente catalogato in un determinato schieramento.

Del resto c’è il campo del bene e quello del male: uno degli aspetti del dibattito pubblico che al contrario viene estremamente polarizzato e che si risolve in una specie di dibattito su quelle che sono le nuove forme di conoscenza.

Purtroppo, più che a un dibattito, assistiamo oggi a una vera e propria guerra di religione, avvilente se a contendere sono proprio le nostre forme del pensiero.

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