E meno male che l’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Draghi avrebbe dovuto resettare i sovranisti. Invece, dalle prime settimane a soffrire di più per l’arrivo di Mr Bce al governo sono i partiti che maggiormente avevano ostacolato il ritorno alle urne: Pd e M5S. Coloro che in maniera più pervicace avevano cercato di rimanere a palazzo.
Ieri, infatti, Nicola Zingaretti, segretario del Pd, ha annunciato le sue dimissioni. Sia chiaro non le ha date, ma ha detto che è pronto a presentarle. Non proprio un dettaglio, come vedremo tra poco, e che suona anche come dimissioni non necessariamente irrevocabili.
La decisione è giunta al termine di un vero e proprio stillicidio di critiche e stilettate che da giorni piovevano sulla segreteria, e che proprio l’altro ieri avevano raggiunto il culmine, al punto che proprio Zingaretti era sbottato chiedendo pubblicamente «lealtà» e ribadendo che tutte le decisioni erano state prese in maniera collegiale.
Parole dure quelle utilizzare ieri da Zingaretti per motivare le due dimissioni: «Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni».
E continuando: «Ce l’ho messa tutta per spingere il gruppo dirigente verso una fase nuova. Ho chiesto franchezza, collaborazione e solidarietà per fare subito un congresso politico sull’Italia, le nostre idee, la nostra visione. Non è bastato». Di qui la scelta di lasciare «visto che il bersaglio sono io, per amore dell’Italia e del partito», che «non può rimanere fermo, impantanato per mesi a causa in una guerriglia quotidiana. Questo, sì ucciderebbe il Pd».
Sfogo durissimo che perciò dovrebbe portarlo, per l’Assemblea del prossimo 13 e 14 marzo, a presentarsi dimissionario. Ma in molti si chiedono se si tratti davvero di un passo indietro o, piuttosto, di uno di lato nel senso che l’intento sarebbe quello di tornare più forte di prima, contando su quell’ampia maggioranza di cui dovrebbe ancora disporre in Assemblea.
Una strategia molto sottile che risponderebbe a una logica precisa: dimettersi adesso per frenare il tiro al bersaglio, evitando così di farsi logorare. Inoltre, grazie a questa mossa a sorpresa Zingaretti prendendo in contropiede i suoi avversari non gli darebbe il tempo di organizzarsi su un’alternativa imponendogli, almeno per il momento, di convergere su di lui.
E dalle prime reazioni sembra quasi avere ragione. Lo confermano gli appelli al ritiro alle dimissioni che giungono dalle varie correnti di partito, tutte unite nel chiedere a Zingaretti di ripensarci. Appelli, che poi è tutto da verificare se siano sinceri, ma che se si confermassero nell’Assemblea potrebbero rendere inutile il congresso stesso, rimandandolo al 2023.
E’ chiaro che questo è quello che desidera Zingaretti, ma in questo ingranaggio potrebbe sempre infilarsi il classico sassolino e far saltare tutto. In fin dei conti, come accaduto allo stesso Conte, quando si abbandona una poltrona non c’è mai la certezza che ci si risieda. E questo ancora di più in un partito, come il Pd, dove le guerre di potere sono ormai all’ordine del giorno.
Fatto sta che l’arrivo di Draghi ha fatto da detonatore alle tante insoddisfazioni che da tempo covavano sotto la cenere. E’ evidente a tutti che la segreteria di Zingaretti non ne ha azzeccata una dalla crisi del governo Conte 1 fino a quella del Conte bis, e anche dopo. Lo attestano i sondaggi che inchiodano da due anni il Pd al 20 per cento; ed ancora di più quelli che raccontano di un crollo al 14 per cento se Giuseppe Conte si presentasse alle elezioni come leader del M5S. Proprio quel Conte che Zingaretti aveva incoronato come leader del campo riformista.
Senza contare lo stallo su alcuni dossier importanti per il partito, a cominciare dalla legge elettorale proporzionale che giace abbandonata in Commissione alla Camera; per finire alle riforme istituzionali che sarebbero dovute essere la ricompensa per il sostegno dato al referendum grillino del taglio dei parlamentari e di cui, invece, non si ha alcuna notizia.
Chiaro che la nascita del governo Draghi, le prime nomine tra cui la cacciata di Arcuri su due piedi, peraltro da sempre uomo vicino ai Ds e senza che i Dem potessero dire la loro, facessero saltare la mordacchia a tanti nel Partito. Ora bisognerà vedere come i maggiorenti del Pd, a partire da Dario Franceschini, decideranno di rispondere alla mossa di Zingaretti e soprattutto se davvero c’è già quell’alternativa che potrebbe portare al congresso e alla nascita dell’ennesima leadership.
Leadership che è in cerca anche il M5S, o forse sarebbe meglio dire di quello che fa capo a Beppe Grillo. Ieri, infatti, Davide Casaleggio è sceso definitivamente in campo pubblicando sul sito di Rousseau il manifesto Controvento, una sorta di appello che richiama «principi e valori per ritornare a volare alto» e dove «anteporre le idee alle persone, le riforme alle poltrone, l’esempio al cambiamento che vogliamo vedere in altri».
Una sorta di ritorno alle origini e un guanto di sfida a quel progetto politico liberale, moderato ed europeista a cui starebbe lavorando Conte su mandato di Grillo. Una mossa che potrebbe portare a un vero e proprio strappo nel quale Casaleggio andrebbe a recitare la parte del custode dell’ortodossia grillina.
Anche qui i prossimi giorni saranno decisivi per capire quale piega prenderanno gli eventi e che sbocco avrà la crisi. Rimane però l’ultima incognita: riuscirà il governo Draghi a rimanere indenne dall’indebolimento dei due partiti che avrebbero dovuto rappresentare l’asse portante della maggioranza? Sarebbe davvero paradossale, infatti, che proprio Salvini, il leader che nessuno avrebbe voluto imbarcare in questo governo, si rivelasse l’elemento stabilizzatore dell’Esecutivo di Mr Bce.
© Riproduzione riservata