Super Sud, un tuffo nella storia: Dalle Due Sicilie all’Italia 443milioni di lire oro, gli altri 8 Stati insieme solo 223

Il Regno delle Due Sicilie (vedi tab.1) contribuì con le proprie risorse finanziarie in maniera sostanziosa alla formazione dell’erario nazionale dell’Italia unificata. Di tutte le risorse confluite nelle casse dello Stato Italiano, erano di provenienza del Sud ben 443milioni di lire oro (2.810 miliardi e 392 milioni di vecchie lire ovvero 1 miliardo e 451milioni di euro) mentre Piemonte, Liguria e Sardegna ne portarono in dote soltanto 27 (171 miliardi e 288 milioni di lire oppure 88 milioni e 462mila euro).

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La Lombardia, invece, di suo ne portò appena 8 (50 miliardi e 752 milioni di lire o anche 26 milioni e 211mila euro); il Veneto 12 (76 miliardi e 128 milioni di lire ovvero 39 milioni e 316mila euro); il Ducato di Modena soltanto 400mila lire oro (2 miliardi e 537 milioni in lire ovvero 1 milione e 310mila euro); quello di Parma e Piacenza 1 milione e 200mila (7 miliardi e 611 milioni di lire ovvero 3milioni e 930mila euro); la Romagna, le Marche e l’Umbria 55 milioni e 300mila (350 miliardi e 823 milioni di lire oppure 181 milioni e 184mila euro); la Toscana 84 milioni e 200mila (534 miliardi e 164 milioni in lire o anche 257 milioni e 872mila euro); infine Roma 35 milioni e 300mila (223 miliardi e 943 milioni di lire ovvero 115 milioni e 656mila euro).

In pratica, quindi, il capitale finanziario del Regno delle due Sicilie costituiva il 66 per cento di quello del nascente Stato unitario.

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E dalla vendita delle terre demaniali e dei beni demaniali del Sud arrivarono altri 600 milioni

Il tutto senza dire, inoltre, che del ricavato dalla vendita delle terre demaniali del Sud e da quella dei beni ecclesiastici, che pure avevano complessivamente fruttato circa 600 milioni (3.806 miliardi e 400 milioni di lire ovvero 1.965 miliardi e 841 milioni di euro), ben poco fu speso nel e per il Sud. Al contributo suindicato offerto dal Regno delle Due Sicilie vanno aggiunti, inoltre, 11 milioni di ducati che “Franceschiello“, all’atto di lasciare Napoli, non aveva prelevato dalle banche presso cui erano depositati; concorse, infine, al gettito proveniente dal Sud anche la confisca di tutti i beni di proprietà della famiglia borbonica. Ed ecco, nella tabella seguente, quale fu, in valute cronologicamente comparate, il gettito dei diversi territori all’erario dell’Italia appena unificata.

In premio il Sud fu ridotto a rango di colonia

In cambio il Mezzogiorno venne ricompensato con la riduzione a rango di colonia. Tant’è che, mentre per i meridionali la tassazione subì un notevole appesantimento, per i piemontesi, invece, gli imponibili crollarono vertiginosamente. Sicchè con i fondi risparmiati e quelli prelevati dal Sud, i sabaudi provvidero a rafforzare e’ a consolidare ulteriormente il proprio apparato produttivo.

Francesco Saverio Nitti

E così – come ebbe a scrivere Francesco Saverio Nitti nel libro “Prime linee di un’inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese dello Stato in Italia”, pubblicato nel 1900 – il sistema fiscale piemontese contribuì ad agevolare «il drenaggio dei capitali dal Sud al Nord», riducendo quello che era il più ricco Stato italiano nella cenerentola dell’economia peninsulare e, di conseguenza, europea.

Non per niente Michele Topa, riferendosi al Regno delle Due Sicilie, ebbe a scrivere che «la ragione commerciale del suo debito pubblico aveva toccato talvolta il 120 per cento, mentre quello piemontese oscillava attorno al 70…». E Fernando Ritter aggiungeva ancora che il Regno delle Due Sicilie «poteva vantarsi di un’amministrazione pubblica modello e di un patrimonio aureo di poco inferiore al mezzo miliardo di lire oro (oltre 3.100.000.000.000 di lire attuali), più che il doppio di quello complessivo degli altri Stati d’Italia».

Purtroppo, infatti, con l’allargamento del sistema fiscale sabaudo all’ex Stato borbonico, sulla testa dei meridionali era caduto – come scrisse Domenico Capecelatro Gaudioso – un vero e proprio «diluvio di tasse che gravarono su tutto, con l’esclusione forse della sola aria per respirare»: un sistema la cui esosità rendeva impossibile la sopravvivenza dell’industria e del commercio e per la cui esazione fu necessario mobilitare l’esercito, senza il cui intervento, come ebbe a scrivere il ministro Bettino Ricasoli, “«le tasse non sarebbero state mai pagate». Pressione fiscale asfissiante – vien da pensare – ed esercito impiegato per fini diversi da quelli istituzionali: cosa è cambiato da allora?

La pesantezza della pressione fiscale, imposta dai sabaudi produsse la chiusura di tutte le unità produttive del Sud

Di conseguenza, una dopo l’altra, cominciarono a chiudere i battenti tutte le fabbriche e gli stabilimenti operanti nel Sud, nei comparti della porcellana, del corallo, delle armi, della pastificazione e tessile, cui i Borbone avevano dato notevole impulso al punto che – come scrive l’Alianello – «delle due uniche aree industriali d’Italia, il Piemonte e il Napoletano, il regno di Napoli era incontestabilmente il più florido».

Il che trova riscontro nei dati contenuti nel primo censimento d’Italia, secondo il quale gli addetti all’industria nel Regno delle Due Sicilie erano 1.595.359, contro i 1.170.859 nella rimanente parte d’Italia (Regno di Sardegna: 376.955; Lombardia: 465.000; Ducato di Parma: 66.325; Modena, Reggio Emilia e Massa: 71.759; Romagna: 130.062; Marche: 16.344; Umbria 10.955; Toscana: 33.456).

Dati, per altro, assolutamente indubitabili a meno che non ci sia malafede e non si voglia continuare a denigrare il Sud, poiché resi pubblici dal Governo piemontese nel 1861 il quale di tutto può essere accusato tranne che di filoborbonismo, tant’è che nel settembre 2005 lo storico Valerio Castronuovo, nel settimo volume della “Storia d’Italia, dall’Unità ad oggi” edito da “Il Sole 24ore”, pur rilevando che la cosa «non deve trarre in inganno», sottolineava «la maggiore aliquota a vantaggio del Sud di popolazione occupata dall’industria (31 contro 25 per cento), quale risulta dalle rilevazioni utilizzate da Eckaus».

Eppure c’è chi, con saccenza e pur di denigrare il Mezzogiorno, continua contestarli. Anzi, addirittura a negarli. Valga per tutti l’esempio dell’esimio professor Lucio Villari, docente di Storia Contemporanea presso l’Università degli Studi di Roma 3.

Infatti durante una trasmissione di “Porta a Porta”, a commento di un’affermazione del settimanale britannico “The Economist” che aveva proposto di staccare il Mezzogiorno dall’Italia e, vista la sua situazione economica, unirlo alla Grecia per ridare vita alla Magna Grecia classica, ebbene Villari, mettendo in mostra tutta la supponenza e la protervia dei docenti universitari “ideologizzati”, diede senza mezzi termini dell’ignorante al senatore leghista Roberto Castelli che riproponeva i dati, quelli che ho esposto nel periodo precedente, citandone anche la fonte: l’insigne accademico affermò che si trattava di dati falsi e che il collega citato non li aveva mai scritti.

Forse qualche ripassatina alla storia, non troppo contemporanea, farebbe bene all’”illuminato” barone universitario, originario di Bagnara Calabra. Anzi, gli eviterebbe qualche figuraccia.

Anche per l’agricoltura del Sud, la (dis)unità rappresentò l’inizio della fine

Anche l’agricoltura meridionale andò, con l’unità d’Italia, incontro ad un vero e proprio tracollo. Al punto che Fernando Ritter ebbe a scrivere che «l’Unità portò innanzitutto alla completa rovina dei contadini, considerati sino alla conquista legalmente inamovibili dalle terre feudali, ecclesiastiche e comunali da loro coltivate, nonché proprietari di quelle coloniche; contadini praticamente esenti da doppie imposizioni e tributi, e di qualsiasi servitù militari».

«L’incameramento di queste terre – proseguiva – in ossequio ai nuovi princìpi, da parte del demanio piemontese, la loro messa in vendita, il loro acquisto, furono il trionfo degli speculatori, degli usurai, dei manipolatori di ogni specie, locali e piovuti dal Nord, i quali, protetti da un esercito d’occupazione forte di 120mila uomini che in 10 anni, bruciando Paesi e paesani, massacrarono 20mila contadini in lotta per il pane, gabbandoli per briganti, e diventarono, con l’ausilio delle leggi, non meno infami di coloro che le applicavano, i padroni inesorabili del contadino».

«Questi, – denunciava ancora – messo nell’impossibilità materiale di pagare le tasse e i balzelli imposti da un Piemonte in eterno disavanzo finanziario, si vide portare via le scorte, gli attrezzi, la capanna, il campo; e ciò non da un feudatario “spietato”, ma dal borghese liberale».

«Così – rilevava inoltre Ritter – il contadino dell’ex reame delle Due Sicilie, il quale dal 1830 al 1860 aveva fruito di una condizione economica assai migliore di quella dei lavoratori della terra del resto della Penisola, si vide con l’Unità depredato, addirittura, anche del lavoro. E questo in quanto i nuovi proprietari della terra, introducendo colture industriali (agrumi e ulivo) in sostituzioni di quelle che coprivano il fabbisogno alimentare e tessile delle popolazioni locali, contadine e cittadine, non ebbero che una preoccupazione: quella di realizzare sempre maggiori profitti finanziari, pure a totale scapito del lavoro».

Fu, quindi, la fine dell’agricoltura meridionale tradizionale, sacrificata sull’altare di una coltivazione di tipo industriale e tradita da un modello di politica sostanzialmente finalizzato allo sviluppo delle aziende manifatturiere del Nord. Sicchè le campagne meridionali, riconvertite alla coltivazione di altri prodotti, non riuscirono neanche più ad assicurare, a differenza di quanto erano state capaci di fare per tanti secoli, l’alimentazione alle genti del Sud. Da questo punto in avanti la realtà meridionale cominciò a precipitare con sempre maggiore intensità.

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