Super Sud, un tuffo nella storia: Il sistema monetario del Regno delle Due Sicilie e il suo potere d’acquisto

Le monete erano coniate in oro, argento e rame

Ma «non c’è rosa senza spine» e la spina del Regno delle Due Sicilie era rappresentata dall’enorme debito pubblico. Da cosa era dipeso tutto questo? Procediamo con ordine.

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Il sistema monetario del Regno delle Due Sicilie arrivò ad una sintesi riformatrice quando, il 20 aprile del 1818, re Ferdinando I firmò una direttiva in tal senso. La moneta del Sud, tra l’altro, la più solida d’Italia, era il ducato, in circolazione come conio di 10 carlini, ognuno dei quali equivaleva a 10 grani; gli “spiccioli” poi erano il tornese (2 tornesi equivalevano a un grano e 6 cavalli equivalevano ad un tornese) e in Sicilia il picciolo; uscirono, invece, dalla circolazione l’oncia ed il tarì siciliano.

Per completezza di trattazione, anche per avere una visione aggiornata del sistema monetario del Regno del Sud e del suo potere d’acquisto, sembra opportuno un confronto fra la moneta allora in circolazione e quella attuale. Le tabelle di comparazione in essere ci dicono che una lira del 1861 equivale a 7.302,1732 lire del 2001. Sicché, considerando che un ducato duosiciliano valeva 4 lire e 25 centesimi piemontesi, se ne ricava che il ducato varrebbe oggi circa 16 euro.

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Le monete erano coniate in oro, argento e rame e in tagli da 3, 6, 15, 30 ducati (e in tagli multipli del grano e del tornese) ed erano incise dai famosissimi maestri incisori della Regia Zecca a S. Agostino Maggiore, fra i più conosciuti in Europa per la bellezza delle loro realizzazioni: al punto che, spesso, le prove di conio dell’istituto d’emissione inglese, prima dell’incisione, erano sottoposte al loro parere tecnico. Ovviamente, come tutti i sistemi monetari, anche quello siciliano era garantito in oro nel rapporto uno ad uno.

La storia numismatica del Sud nata 2.500 anni prima, alle Zecche della Magna Grecia

E su questo fronte va registrato l’ennesimo primato dell’Italia meridionale, la cui storia numismatica era cominciata ben 2.500 anni prima, grazie alle zecche della Magna Grecia, in un’era in cui in tantissime parti d’Italia e del mondo vigeva ancora il baratto in natura.

All’alba del 1700, le banche (“i banchi”) del Regno delle Due Sicilie, tutte del resto in condizioni economico-finanziarie assolutamente floride fino alla fine del secolo, erano già sette: S.Giacomo; del Salvatore; S.Eligio; del Popolo; dello Spirito Santo; della Pietà; dei Poveri. Fu dal loro accorpamento, cominciato nel 1803 e terminato definitivamente il 12 dicembre del 1816, che ebbe origine il “Banco delle Due Sicilie”, diventato più tardi “Banco di Napoli” nella parte continentale del regno e “Banco di Sicilia” nell’isola.

In tali strutture era possibile aprire conti correnti e la quantità di denaro che vi veniva depositato era davvero enorme; inoltre era possibile chiedere prestiti a mutuo o su pegni, proprio come avveniva negli antichi banchi, ma, proprio come avviene oggi, a tasso davvero elevato: «In certe province – riferisce un significativo commento dell’epoca – non si trova denaro sopra ipoteca neppure al 12% o al 15%».

Un sistema creditizio decisamente rigido rispetto alle potenzialità economiche del Sud

Già in quell’epoca, quindi, come si evince da quanto è stato appena esposto, il sistema
creditizio metteva in mostra tantissima rigidità, rispetto alle reali potenzialità economiche del Sud. Al punto che Carano Donvito, nel suo “L’economia meridionale prima e dopo il risorgimento”, definisce il Banco di Napoli come «una meschina istituzione di deposito».

Per fortuna, il costo della vita nel Regno delle Due Sicilie era decisamente basso rispetto agli altri Stati preunitari: per averne contezza è sufficiente confrontare il livello dei salari dell’epoca, per altro anch’essi abbastanza bassi, con il costo dei generi di prima necessità.

Andiamo, allora, con ordine: la giornata di lavoro di un contadino era pagata 15-20 grani, quella degli operai generici dai 20 ai 40 grani, 55 per quelli specializzati; i maestri d’opera venivano retribuiti con 80 grani; a tali retribuzioni veniva aggiunto un soprassoldo giornaliero di 10-15 grani per il vitto; un impiegato statale percepiva 15 ducati al mese, un tenente di fanteria 23, un colonnello di fanteria 105. Di contro, un rotolo di pane (890 grammi) costava 6 grani, uno equivalente di maccheroni, di carne bovina 16; un litro di vino 3; e tre pizze costavano 2 grani.

Il livello impositivo del Sud, il più mite di tutti gli Stati italiani

Il livello impositivo era il più mite di tutti gli Stati Italiani; per quanto riguarda la contribuzione diretta, era in pratica basato solo sull’imposta fondiaria, le ritenute fiscali partecipavano solo per il 3.2 per cento e le entrate dello Stato arrivavano per il 30 per cento dalla fondiaria, per il 4 dai dazi, il 12 era assicurato dalla Sicilia come contributo alle spese generali dello Stato ed il 18 era diviso tra 17 altri capitoli che concorrevano con percentuali irrisorie

Il bilancio del Regno del Sud e delle Due Sicilie risentì, sin dall’inizio, di un debito pubblico di 20 milioni di ducati, lasciato ad esso in dote dal governo francese di Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat: in pratica oltre un’annata di entrate fiscali. Di conseguenza, l’Austria ne impose l’estinzione immediata, con scadenze fissate sino al 1819. Per poter fare fronte a tale impegno, però, il governo si vide costretto a ricorrere al prestito: non essendo state trovate però banche internazionali disponibili, ad accollarsi l’intero peso fu la debole struttura napoletana del credito che, come in molti altri paesi, anche qui era frammista a quella mercantile.

Purtroppo, ed anche qui siamo di fronte ad una realtà ancora oggi verificabile, il costo del denaro nel Mezzogiorno era più alto che altrove e oscillava dal 20 al 30 per cento (a Parigi era del 6): per cui un prestito 1.000.000 di ducati, in termini d’interessi da pagare, anziché 60.000 ducati, ne costava almeno 200.000. Per farvi fronte lo Stato pensò di far crescere le entrate. La cosa si dimostrò impossibile dal momento che gli agricoltori, già sottoposti all’imposta fondiaria e l’industria appena nascente, non erano in condizione di sostenere alcun ulteriore carico fiscale.

Per far fronte al debito pubblico il Regno del Sud puntò ad incrementare i mezzi finanziari e razionalizzare la spesa

Sicché, non potendo aumentare le entrate, si puntò all’incremento dei mezzi
finanziari, di razionalizzare la spesa pubblica, dirottandone l’85 per cento sui ministeri delle
Finanze, della Guerra (l’odierno ministero della Difesa) e della Marina perché potessero far fronte agli stipendi degli impiegati, al debito pubblico e alle forze armate; agli altri ministeri rimase solo il 15, a quello dei Lavori Pubblici andava un po’ più del 5 del totale delle uscite.

Di conseguenza, nel 1820 il regno era ormai sull’orlo della bancarotta a causa del debito pubblico, arrivato a 30.000.000 di ducati, cui si aggiunse il costo da pagare per il mantenimento dell’esercito austriaco, arrivato con l’obiettivo di fermare la svolta costituzionale di quell’anno; esso rimase nelle Due Sicilie fino al 1827, appesantendo il bilancio del Regno di ben 50.000.000 di ducati e facendo crescere il debito fino a 80 milioni di ducati nel 1825 e poi 110.000.000 nel 1827.

A dare fiato alle asfittiche casse pubbliche del Regno furono in quel momento i banchieri Rothschild, ma l’impossibilità di fare crescere il numero dei contribuenti non permise la diminuzione del debito pubblico. L’unica nota positiva fu che, grazie all’accuratissima politica di gestione delle spese, si riuscì almeno a bloccarne l’ulteriore crescita. Sicchè, nel 1860, il debito era ancora fermo ai 110.000.000 di ducati del 1827.

Tutto questo perché, come sottolinea Giovanni Carano-Donvito nel testo citato prima, la politica finanziaria del Sud e delle Due Sicilie era stata orientata sul contenimento della spesa pubblica «pur di contenere al massimo le pubbliche entrate», addossando «il carico tributario alla classi meno querule, più docili». Orientamento, per altro, usuale per i governi dell’epoca. Tant’è che «prima dell’avvento delle moderne forme costituzionali di Governo, fu politica generale di quasi tutti gli stati di ricorrere il meno possibile ad entrate tributarie, spesso più per ragioni politiche che economiche».

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