Un governo allo sbando che si preoccupa prima dei suoi soci, che dei suoi cittadini

Un governo da repubblica delle banane. Ma il Pd, pensa di poterci prendere in giro e ripete che «va tutto bene» e si autoincensa. Ancora, il pm Di Matteo accusa Bonafede (che more solito scarica sull’opposizione) di non averlo nominato alla guida del Dap perché sgradito alla mafia e il centrodestra ne propone la sfiducia; l’imprenditore napoletano Antonio Nogaro, si suicida, strozzato dalla crisi economica post-Covid; Eurozona in recessione (Pil 2020 -7,7%), ma l’Italia è la peggio messa – 9,5%; paghiamo 2.004.000 redditi di cittadinanza – solo 40mila dei quali hanno trovato lavoro e il M5S parla anche di reddito d’emergenza – ma, per dare manodopera all’agricoltura, la Bellanova vuole regolarizzare 600mila immigrati.

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La produzione industriale nel solo mese marzo è crollata del 28,4% rispetto al mese precedente e del 29,3 su base annua. Intanto si scopre che sono già 25 i suicidi economici dall’inizio della pandemia a oggi e finora tutti hanno finto di non accorgersene, compreso il governo. Il decreto aprile (la cui approvazione era prevista per prima di Pasqua) per il quale il governo ha chiesto uno scostamento di bilancio di 55 miliardi non è ancora arrivato e siamo già al 12 maggio.

Qualcuno assicura che l’ora x dell’approvazione dovrebbe scoccare oggi pomeriggio. Sarà vero? C’è da sperarlo, perché siamo assolutamente in ritardo. Ma non è detto che interessi a qualcuno di lorsignori, che sembrano avere ben altri ‘litigi’ da appianare, piuttosto che risolvere i problemi dell’Italia e degli italiani. E comunque sulla scorta delle anticipazioni sui contenuti dello stesso, non c’è da essere particolarmente allegri.

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Il decreto rilancio, così come suggestivamente, lo hanno chiamato i giallorotti poichè, stando alle promesse, dovrebbe contribuire alla ripresa dell’economia, supportando imprese, commercianti, professionisti, artigiani e famiglie, dopo l’interminabile lockdown, ma che – alla luce delle anticipazioni – rischia di soffocarle definitivamente.

L’Unica novità vera di questo decreto è, infatti, la nascita del ‘tax day’ ovvero il giorno che gli italiani dovranno dedicare al pagamento delle pendenze fiscali rinviate dall’inizio della pandemia. Il 16 settembre prossimo, infatti, i contribuenti italiani – persone fisiche ed aziende – dovranno recarsi in banca per versare: ritenute, Iva, contributi Inps e Inail, cartelle, rate della rottamazione ter, del saldo e stralcio, in pratica tutte le imposte rinviate da marzo a quella data.

Chissà se il governo si è chiesto dove le aziende reperiranno i fondi per fronteggiare il ‘tax day’

Chissà se Conte, Gualtieri e il resto del governo, si sono chiesti da dove imprese, aziende e persone fisiche – inattive, per colpa del coronavirus e volontà del governo, e che, in conseguenza di questo lockdown, hanno visto prosciugarsi le proprie casse – prenderanno le risorse per saldare i propri debiti con il fisco.

Debiti che, sommandosi insieme, si saranno nel frattempo trasformati in un vero macigno di enormi proporzioni e decisamente insormontabili. Il che rischia davvero di ridurre all’elemosina il Paese. Del resto cosa si poteva attendere da partiti che hanno trasformato assistenzialismo e decrescita (in)felice in mantra sui quali fondare il proprio successo.

E, intanto, mentre hanno statuito che, le aziende per avere diritto a qualche contributo a fondo perduto dovranno aver registrato un enorme crollo di fatturato (due terzi rispetto all’anno precedente) cosa difficile da dimostrare, ma che rappresenterebbe l’anticamera del fallimento, sembrano intenzionato ad anticipare ai partiti, al 31 agosto, ben prima, quindi, della fine dell’anno, «una somma pari erogato nell’anno 2019». Ovviamente, se l’acconto dovesse risultare superiore alla cifra spettante, il partito dovrà restituire la differenza. Che soddisfazione!

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Ma a dispetto della situazione catastrofica creata il governo resta al proprio posto

Ciò nonostante, l’esecutivo resta al suo posto e – pur mentre litiga su tutto – continua a dare i numeri. Ma non quelli che i cittadini vorrebbero sentirsi dire, per lasciarsi alle spalle una pandemia che ha costretto tutti a starsene in casa per evitare il contagio, non mettere a rischio la propria vita e quella degli altri, trascinando sull’orlo del fallimento, piccole e grandi imprese, professionisti, lavoratori autonomi e dipendenti.

A marzo il nostro Pil ha registrato, rispetto al trimestre precedente, un -4,7%, la flessione più alta dal 1995 ad oggi e un calo del tasso di disoccupazione (-0,9%) 267mila unità, ma solo perché gli inattivi – persone in cerca di occupazione che sfiduciate hanno rinunciato a cercare lavoro – sono cresciuti di ben 301mila unità (35,7%). Secondo Confcommercio la riapertura non ci aiuterà a riprenderci dal momento che i consumi subiranno un crollo dell’8%, per un valore assoluto di ben 84 miliardi rispetto al 2019 e la Commissione Ue, ci attribuisce per il 2020 un pil in discesa addirittura del 9,5%. Del resto siamo l’unico Paese ad aver chiuso tutto per 3 mesi.

Di più, le aziende non sono apparse particolarmente ricettive a ricorrere al sistema bancario, per reperire la risorse venute meno a causa dell’emergenza e – visto anche le ben 19 certificazioni richieste dalle banche – tra il debito e la chiusura, hanno preferito optare per la seconda. Alla luce di quanto sta succedendo, come si fa a dare loro torto? Tanto più che il governo di Giuseppi & c., sembrano puntare a foraggiare l’assistenzialismo (reddito di cittadinanza, di emergenza, universale), e immigrazione piuttosto che favorire l’occupazione.

Altrimenti, anziché, «giocare» a guadagnare tempo – facendolo di converso perdere alle aziende – con la frottola «dei 400 miliardi di liquidità immediata» – invitandole ad indebitarsi, tanto garantisce lo Stato, con le banche, che, per altro, non hanno mostrato alcuna disponibilità per le poche richieste di prestiti arrivate – avrebbero potuto cominciare dal saldare i debiti della Pa, oltre 50 miliardi, con le aziende fornitrici. Magari prevedendo, in uno dei tanti dpcm, la possibilità di una compensazione fiscale. Il che avrebbe aiutato a salvare, ‘capre’ (le imprese in difficoltà) ‘e cavoli’ (i posti di lavoro).

Senza dire, poi, che, per rimettere effettivamente in moto il Paese, basterebbe infilare le mani nell’elenco delle opere pubbliche bloccate 300 (secondo Salvini), 600 (a detta della Filca-Cisl) per un valore complessivo – tra diretto ed indotto – di ben 86 miliardi, con consequenziale e possibile attivazione di 380mila posti di lavoro, che, in questo momento, non sarebbero cosa da poco. In uno, però, con una revisione del codice degli appalti che ha ulteriormente ingessato il Paese e una «poderosa» sburocratizzazione delle procedure pubbliche, Genova e il nuovo ponte sul Polcevera docunt.

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