La terzietà del giudice Apostolico sembra figlia di un pregiudizio

Così si rende la dimensione giudiziaria poco credibile, negoziabile politicamente, distante dall’essere equa

Per non scadere nell’ovvio che rischia di assecondare la «caciara» bisogna, preliminarmente, riconoscere che un ordine (la magistratura) della Repubblica Italiana non può assurgere a potere. La giurisdizione e le sue esercitate prerogative dovrebbero essere la sintesi dell’equilibrio dei poteri, distinti e separati, dello Stato di diritto. Ovvero il luogo istituzionale in cui si coniugano autonomia di pensiero, indipendenza e distanza del giudice, nell’esercizio delle funzioni, rispetto alle situazioni giuridicamente rilevanti da giudicare.

Certo ciascuno (ogni magistrato) possiede una propria coltivata cultura ed esperienze di vita tali da favorire anche una subliminale influenza sul come e sul perché decidere in un certo modo.

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La decisione giudiziale, sia essa sentenza, decreto o ordinanza, assume un suo valore culturale e serve a chiarire gli approfondimenti seguiti e le motivazioni ricavate. Di contro laddove non sia facile rintracciare un filo logico sulla base della dialettica processuale si rischia di far diventare la decisione in tribunale un momento controverso in cui rilevano incongruenze sotto il profilo logico e giuridico. Diviene dubbio, così, l’esito, ma ancora di più diventa opzionale il ragionamento seguito e soprattutto si ricade nel novero dell’ermeneutica strumentale, laddove l’interpretazione si sostituisce al dettato normativo. Così avviene il cortocircuito tra un ordine (magistratura che deve applicare le leggi) che vuole assumere le vesti del legislatore (parlamento che propone ed approva le leggi).

A questo punto di fronte a casi del genere tutto diventa discutibile e l’opinabilità in diritto rende tutto debole, poco credibile al punto da offuscare la certezza del diritto. In questa maniera il giudice assurge ad un ruolo poco chiaro perché, con questa incerta e fallace condotta, estende la giurisdizione a occasione «ladra» per accorpare inappropriatamente funzioni e prerogative che lo vedono potere legislativo e momento applicativo di norme che arbitrariamente possono essere svuotate delle finalità loro proprie stabilite in sede parlamentare. A questo punto può venir meno il paradigma normativo approvato dal parlamento e promulgato dal Presidente della Repubblica.

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Qui si approda ad una sorta di confusione, in cui non è facile distinguere tra scelte politico-legislative e applicazioni ideologiche-culturali di una norma. A Catania, col giudice Apostolico, si è verificato questo: il far venire meno l’autonomia di pensiero e l’indipendenza del magistrato che, simpatizzante di una sinistra pro-immigrati, assume disinvoltamente l’onere di decidere senza il necessario distacco su materia affine.

Un giudice che appare visibilmente schierato su un tema, appartenendo la sua cultura a visione di parte, fa venire meno la terzietà dell’organo chiamato a decidere con asettica partecipazione emotiva e con profondità di cognizione giuridica. Laddove manca questa giusta distanza rispetto al problema da scrutinare si rende il diritto claudicante e la giustizia momento di difficile approdo.

Così si rende la dimensione giudiziaria poco credibile, negoziabile politicamente, distante dall’essere equa. In questi casi l’incompatibilità del magistrato sarebbe doverosamente da dichiarare al momento dell’assegnazione della «pratica». Solo così un’organo dello Stato opererebbe con spirito di servizio a tutela dei principi costituzionali della Repubblica Italiana e ciò che proviene da questo atteggiamento istituzionale renderebbe granitica la decisione assunta, nel corretto esercizio del ruolo.

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