Da piccola borghesia, il «ceto medio», si è trasformato in classe d’incapienti

Un tempo, la «classe di mezzo» era portatrice di valori che la caratterizzavano. Purtroppo l’egualitarismo l’ha annichilita

Dov’è finita quella fascia sociale, sociologicamente classificata come «ceto medio», che tradizionalmente occupa una posizione intermedia tra i più abbienti e coloro i cui bassi salari ne limitano il potere di acquisto un tempo definiti «proletari»?

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Dopo le trasformazioni industriali che hanno preceduto e preparato la rivoluzione tecnologica, il proletariato si è dissolto finendo per sconfinare da un lato nella classe media e dall’altro, in ragione dell’estremo impoverimento, in quella dei cosiddetti «incapienti». Oggi è difficile definire il «ceto di mezzo», corrispondente per lungo tempo alla piccola borghesia, ma non per questo si deve concludere che non esiste.

Al contrario, esso si è dilatato, assommando in un unico segmento i piccoli produttori (industriali, artigiani, agricoltori, commercianti) con i salariati pubblici e privati fino a formare una stessa «comunità» culturalmente abbastanza omogenea grazie anche alla uniformità dei modelli di vita omologanti, diversamente da quanto accadeva nel passato.

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È questo il dato più rilevante dell’egualitarismo sociale che ha prodotto un indifferentismo sostanziale nella qualificazione di quelli che un tempo venivano definiti «corpi intermedi» dal punto di vista politico. La loro cancellazione, in verità, avvenne con la Rivoluzione francese ed in particolare con la «Loi Le Chapelier» (14 giugno 1791) che cancellò d’un tratto le differenze sociali abrogando le organizzazioni di mestiere, innanzitutto le corporazioni, ma anche le prime forme di sindacato, il diritto di sciopero pur proclamando il principio della libertà d’impresa.

Sembrò un paradosso all’epoca, ma il giacobinismo non fu che l’esaltazione della confusione alla quale proprio il ceto medio, in una sorta di delirio autolesionista, diede l’apporto maggiore contrapponendosi all’aristocrazia e al clero, ma accettando, l’idea che il tessuto sociale connettivo non dovesse più avere rappresentanza. Un suicidio politico.

Oggi, superando antiche dispute storiche nel merito, si potrebbe concludere che la difficoltà di individuare il ceto medio nelle sue forme strutturali e concettuali ha provocato il tramonto della sua stessa rappresentanza con l’aggravante che il corpo dei produttori – a qualsiasi livello – non ha più voce in capitolo pur restando, economicamente e socialmente, la spina dorsale della società post-industriale.

Insomma, l’assieme di coloro che contribuiscono al contempo alla produzione e al consumo, senza partecipare ai processi decisionali della catena produttiva o nel detenerne parti fondamentali e senza esserne, parimenti, largamente esclusi (come accadeva per i proletari di un tempo che vivevano ai limiti della sussistenza), non trovano chi tenga vive le loro ragioni tanto nella società quando nelle istituzioni politiche rappresentative. Un po’ perché è francamente difficile individuare linee comuni e un po’ per il fatto che gli antagonismi oggettivi nello stesso ceto non aiutano a formulare ipotesi univoche di tutela.

Ma è proprio su questo che bisognerebbe modulare una nuova forma di rappresentanza che tenga viva la cultura di fondo di un ceto ormai omologato in tutte le sue espressioni, che tuttavia abbia la capacità di discriminare tra le componenti aggiungendo all’individuazione dei problemi specifici la volontà di costituire una piattaforma organica sulla quale far convivere le esigenze di tutti coloro che avvertono come unitari gli stessi problemi, a cominciare da quelli di carattere fiscale. I piccoli e medi imprenditori, così come commercianti ed agricoltori hanno un disperato bisogno di coalizzarsi sulla base della necessità di vedere i loro bisogni soddisfatti ed i loro diritti garantiti.

A parte quelli che potremmo definire diritti «elementari», dalla salute all’istruzione, ce ne sono altri, pre-politici, che vanno dalla realizzazione di un particolare tipo di status culturale e sociale alla concretizzazione di una favorevole prospettiva di sviluppo familiare legato alla trasmissione della condizione di produttori e consumatori insieme, dunque di «proprietari» di qualcosa che garantisca un avvenire alla loro discendenza, non in modo parassitario, è ovvio, ma quale base di costruzione di un futuro com’è nella natura umana. Lo stesso dicasi per i salariati su cui il fisco, al solo scopo di alimentare uno Stato burocratico mostruoso quanto ingiusto moralmente oltre che inservibile, esercita un potere che non è eticamente giustificabile.

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Rappresentando statisticamente la parte più consistente della popolazione, il ceto medio – dilatatosi rispetto al passato ed avendo assunto una connotazione culturale non paragonabile a quella vigente fino a venti o trent’anni fa – avrebbe bisogno di un’adeguata considerazione da parte delle forze politiche le quali, con tutta evidenza, sembrano essersi costituite come un apparato distinto dalla popolazione a garanzia soltanto di se stesse.

Il che non vuol dire «privilegiate» al punto da formare una «casta» – è perfino filologicamente orribile quel che è stato fatto utilizzando questo falso storico da parte dei cosiddetti «poteri forti» che hanno fatto crescere e sviluppare un inaccettabile populismo fondato sull’odio sociale – ma semplicemente refrattarie culturalmente a comprendere i mutamenti culturali che stanno alla base delle trasformazioni sociali.

Forse dipende da questa deficienza politica la dilatazione del vuoto nel quale si dibatte il nuovo «ceto medio», indefinito, incompreso, respinto perfino nelle sue aspirazioni nonostante sia la parte più rilevante numericamente del nostro Paese come di tutti quelli sviluppati. Un atteggiamento che rivela un pregiudizio ideologico antico eppure rinnovato nelle forme che ha assunto: l’egualitarismo quale tendenza pre-politica che tende a distruggere meriti, capacità, gerarchie nella valutazione delle persone. Ciò non vuol dire che i cittadini non debbano essere posti nelle condizioni di competere ed emergere a parità di condizioni, naturalmente.

Ma allo stesso tempo c’è la necessità di incentivare le capacità nella formazione dei giovani al fine di far emergere l’indispensabile «spirito critico» che è uno degli elementi istitutivi della crescita e dell’affermazione. Un tempo il ceto medio era portatore di questi valori che al tempo stesso lo caratterizzavano. L’egualitarismo li ha annichiliti e con essi anche chi li faceva valere nell’ambito di una organicità sociale riconosciuta.

La middle class, tuttavia, per quanto possa apparire bizzarro, c’è, vive, opera, ma non esiste, a differenza di quel che accadeva prima che la politica diventasse un terreno su cui si esercitano avventurieri privi di un obiettivo che, sintetizzando al massimo, si potrebbe riassumere nella ricerca e nella conseguente difesa del «bene comune». Un obiettivo evidentemente inesistente per chi ponendosi genericamente contro il cosiddetto establishment, non ha intenzione di abolirlo, ma di crearne uno nuovo, incerto, meno stabile, fragile e privo di fondamenti morali e culturali. Un’élite di straccioni, insomma.

Gennaro Malgieri
Già parlamentare
e direttore del ‘Secolo d’Italia’

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