Super Sud, un tuffo nella storia: i giornali in Sicilia nel biennio liberale

La rivolta siciliana, che per un anno e mezzo fece rivivere l’antico Regno di Sicilia, diede la stura a un dibattito culturale vivace e di notevole spessore, il cui principale risultato fu quello di risvegliare dal suo lungo sonno la classe intellettuale siciliana. Il che produsse un notevole proliferare di piccoli e grandi giornali di varia diffusione.

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A ispirarli una classe di intellettuali, in parte esponenti dell’aristocrazia e in parte rappresentanti della media borghesia di formazione illuminista come Matteo e Girolamo Ardizzone, Corrado Arezzo de Spuches, Vito Beltrani, Michele Bertolami, Francesco Busacca, tornato a bella posta da Firenze, Francesco Campo, Benedetto e Giambattista Castiglia, Gaspare Ciprì, Francesco Crispi, Gaetano Daita, Giovanni e Vito D’ondes Reggio, Francesco Ferrara, Saverio Friscia, Giuseppe La Farina, Francesco Milo Guggino, Francesco Paolo Perez, Giovanni Raffaele, Gregorio Ugdulena, Leonardo e Salvatore Vigo.

Fra di loro membri del governo, della Camera dei Comuni, ed esponenti dei club nati per germinazione spontanea nella capitale siciliana, i cui giornali poterono godere della più completa libertà di espressione. Cosa, in quel periodo dell’Ottocento, più unica che rara e resa ancora più complicata da un momento storico caratterizzato dal susseguirsi continuo e incessante di eventi rivoluzionari e controrivoluzionari.

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Grazie all’immensa libertà di stampa, nasce il filoborbonico “Il Gesuita”

La dimostrazione dell’immensa libertà attribuita alla stampa siciliana è la constatazione della pubblicazione, proprio nel periodo di massimo successo della rivoluzione, di un giornale decisamente antirivoluzionario e filoborbonico: “Il Gesuita”, nato appena 13 giorni dopo la decisione del Parlamento siciliano di espellere dal proprio territorio i gesuiti.

La nota di presentazione del giornale, pubblicata ovviamente nel primo numero, era, infatti, così dura e violenta contro il potere costituito che non ci si può non sorprendere, in maniera ovviamente positiva, di come il governo ne avesse consentito la pubblicazione e permesso la diffusione. Per rendersene conto, basta riflettere sul fatto che, in quella nota, i protagonisti della rivoluzione venivano etichettati come “infami” e la rivolta contro i Borbone “orrenda”.

Erano trascorsi appena 9 giorni dallo scoppio della rivoluzione che già nasceva “il Giornale patriottico” che di lì a poco sarebbe diventato “Il Tribuno”: il suo principale compilatore fu Salvatore Salafia. Nei 45 numeri del giornale, uscito fino al 13 marzo 1848, comparvero firme prestigiose e di grosso spessore culturale come Michele Amari, Gregorio Ugdulena, Benedetto Pastiglia e Gaetano Picone. Esso non nascose mai il suo favore per un costituzionalismo moderato e fu molto vicino alle correnti federali e al programma neoguelfo di Vincenzo Gioberti.

Non trascorse molto tempo, solo un giorno, e alla nascita del “Patriottico” seguì quella de “Il Cittadino” il cui arco temporale di vita, cominciato il 22 gennaio, si concluse il 30 settembre 1848. A dirigerlo l’abate Giuseppe Fiorenza e Gaetano De Pasquali, che poterono contare sulla collaborazione di Mario Corrao e Biagio Privitera.

Il suo obiettivo iniziale era quello di far conoscere i fatti della rivoluzione fino a quando la situazione in Sicilia non si fosse definitivamente stabilizzata: poi, almeno nelle intenzioni dei fondatori, avrebbe rivolto la propria attenzione solo al dibattito politico. Almeno inizialmente, a parte l’appoggio al ripristino della costituzione del 1812 e all’idea federalista, i suoi obiettivi politici non apparvero chiari e definiti.

Certo, nel giornale comparvero anche articoli favorevoli alla repubblica, ma erano posizioni sempre decisamente molto vaghe in cui la repubblica viene vista più come un’astratta e irrealizzabile organizzazione politica che come una possibile forma istituzionale.

Gennaio 1948 “la Rigenerazione”, costituzionalismo monarchico per l’unità d’Italia

“La Rigenerazione”, nata il 27 gennaio del ’48 e le cui pubblicazioni cessarono il 4 settembre successivo, ebbe come suo principale obiettivo quello di un costituzionalismo monarchico che puntasse ad una unione col resto dell’Italia su basi federaliste, il cui primo passo – secondo i suoi estensori – avrebbe potuto essere rappresentato da un’unione federale tra Napoli e la Sicilia.

Ma quando il mattino del 5 febbraio dalla torre più alta del castello palermitano fu fatta sventolare la bandiera tricolore con la scritta Confederazione Italiana, il giornale non ebbe alcuna remora ad applaudire entusiasticamente all’iniziativa, affermando: «Ecco, diceva, Italiani il segno della nostra nuova alleanza: la Sicilia fra tutti gli Stati italiani inalberò la prima questo vessillo; questa è la nostra comune patria; dalle Alpi al Lilibeo […] corriamo ad abbracciarci con un nodo indissolubile, confederiamo l’Italia ad onta degli sforzi dei nostri oppressori».

Il femminismo, a quel tempo praticamente sconosciuto, era ancora al di là da venire ma il direttore della “Rigenerazione” Tirrito cominciò di già a pensare all’opportunità di affidare alle donne un ruolo politico nel rinato regno di Sicilia. Una notevole importanza fra i giornali del primo semestre rivoluzionario va attribuita a “L’Apostolato”, fondato e diretto da Francesco Crispi, rientrato da Napoli con l’intento di recitare un ruolo da protagonista nella ricostruzione politica della sua Sicilia.

Il foglio, il cui primo numero vide la luce il 27 gennaio 1848, interruppe le pubblicazioni il 25 maggio successivo per riprenderle il 13 febbraio dell’anno seguente e concluderle definitivamente il 6 marzo 1849. Nella prima serie, da gennaio a maggio ’48, la testata era completata dal motto rivoluzionario francese “Nous marchons” il quale, nella seconda serie, fu costretto a cedere il posto ad un altro molto meno giacobino: “Post fata resurgo”.

Un cambiamento dovuto al fatto che, nel frattempo, erano mutate sia la posizione del Crispi sia la situazione politica del momento: quello che compilava la prima serie de “l’Apostolato” era, infatti, un Crispi giacobino, rivoluzionario, che si ispirava agli ideali della rivoluzione francese, giovane, sognatore, affascinato dall’idea di una possibile palingenesi totale.

Ma quando, nove mesi dopo la cessazione, il giornale riprese le pubblicazioni, era cambiato praticamente tutto perché la rivoluzione si andava esaurendo e le forze borboniche erano a un passo dal riappropriarsi di una Sicilia fragile sotto il profilo militare e, per di più, senza più alcun collegamento diplomatico al di fuori del propri confini.

Il Crispi giacobino della prima fase de “l’Apostolato” diventa moderato

E, soprattutto, anche Crispi non era più quello della prima ora. A questo punto, accortosi delle difficoltà della rivoluzione, non gli rimaneva che sperare che una conversione al moderatismo avrebbe potuto tornare utile e consentire di salvare l’indipendenza, cancellando le preoccupazioni e i timori tanto della Francia e dell’Inghilterra, quanto della stessa aristocrazia siciliana.

In quel periodo il giornale potè contare sulla collaborazione di grossi e importanti esponenti della cultura siciliana dell’epoca come Filippo Cordova, Salvatore Chindemi, Michele Bertolami, Giovanni Bruno ed Elisabetta Fiorini.

Il giornale fu tra i sostenitori più accesi del ritorno alla Costituzione del 1812 e del mantenimento dell’indipendenza politica ma anche dell’unione confederale a Napoli e agli altri Stati della penisola.

Da questo punto di vista appare decisamente significativa la pubblicazione sulle pagine del foglio crispiano della lettera di Michele Bertolami a Mazzini sui destini della Sicilia e dell’Italia: «[…]Non mi parlate di Unità ma di Unione. Ed Unione grida la Sicilia a Napoli, come tutti gli altri Stati italiani[…], unione che unifichi l’Italia nei sacri interessi della sua piena indipendenza e lasci inviolati ad un tempo i diritti di ogni Stato al cospetto degli altri. Unione grida la Sicilia, ma quell’Unione vera che è tra fratelli fieri della propria dignità e bramosi di sostenere e difendere la madre comune, quell’unione che la faccia parte d’Italia e non provincia di Napoli, quell’unione che consigliata e, dirò meglio, comandata dai sacri solenni interessi, non possa mai venire meno per astuzia di principi e sciagurate passioni di popoli[…]».

Nell’ultimo numero della prima serie, quello del 13 maggio 1848, Crispi sottoscrisse una nota editoriale nella quale ribadiva la sua convinzione sulla necessità di una Sicilia indipendente in un contesto confederale italiano, Sicilia che si era «[…] disgiunta da Napoli, come dalla sua matrigna, ma che va a ricongiungersi coll’intera Italia, come colla sua naturale madre».

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