Ristori, la Cgia: «Coperto solo il 25% delle perdite. Aiuti del tutto insufficienti»

«Dall’inizio della crisi pandemica fino a oggi le risorse direttamente a sostegno delle imprese italiane ammontano a circa 35 miliardi di euro. Nonostante ciò, questi aiuti sono stati, per la gran parte dei destinatari, del tutto insufficienti». Lo afferma la Cgia di Mestre in una nota. E dopo l’approvazione dell’ultimo DPCM, la situazione in questo periodo natalizio è destinata a peggiorare ulteriormente.

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Segnala il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo: «Da alcune nostre stime emerge che i contributi a fondo perduto concessi agli artigiani, ai piccoli commercianti, ai ristoratori e agli esercenti colpiti dal Covid hanno coperto mediamente il 25 per cento circa delle perdite di fatturato subite quest’anno. A seguito delle difficoltà di questi mesi, non è pertanto da escludere che almeno 350 mila piccole e micro aziende di questi settori chiuderanno definitivamente la saracinesca entro la fine di questo mese, lasciando senza lavoro almeno 1 milione di addetti».

«Pertanto – continua Zabeo -, per sostenere quelle imprese che invece continueranno a tenere aperto è necessario un cambio di marcia; passare dalla logica dei ristori a quella dei rimborsi. Come? In primo luogo indennizzando fino al 70 per cento i mancati incassi e in secondo luogo abbattendo anche i costi fissi, così come ha stabilito nelle settimane scorse la Commissione Europea. Altrimenti, rischiamo una desertificazione dei centri storici e dei nostri quartieri, poiché non potranno più contare sulla presenza di tantissimi negozi di vicinato».

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Se da un lato l’Unione Europea ha riconosciuto alle piccole imprese con una perdita di almeno un terzo del fatturato la possibilità di vedersi rimborsare dai rispettivi Paesi di appartenenza fino al 90 per cento dei costi fissi, dall’altro ha introdotto una nuova definizione dello stato di inadempienza delle aziende che creerà molti problemi soprattutto a tantissime Pmi.

Afferma il segretario Renato Mason: «Con tante tasse, una burocrazia intollerabile e un crollo verticale degli investimenti pubblici e privati che non ha eguali negli ultimi decenni, c’è una grossa novità che dal prossimo mese di gennaio rischia di mettere in seria difficoltà tante aziende, soprattutto di piccola dimensione. Ci riferiamo alla nuova definizione introdotta dall’Unione Europea in materia di default. Dopo aver abbassato la soglia di sconfinamento per cittadini e imprese, per evitare gli effetti negativi dei crediti deteriorati Bruxelles ha imposto alle banche l’azzeramento in 3 anni dei crediti a rischio non garantiti e in 7-9 anni per quelli con garanzia reali».

«E’ evidente che l’applicazione di questa misura, indurrà moltissimi istituti di credito ad adottare un atteggiamento di estremo rigore nell’erogare i prestiti, per evitare di dover sostenere delle perdite nel giro di pochi anni. Una soluzione, quella decisa dall’UE, che sebbene abbia una sua validità in tempi normali, appare del tutto inopportuna in un momento così drammatico come quelloche stiamo vivendoe, purtroppo, vivremo almeno per un altro anno» sottolinea Mason.

Tornando sul tema delle misure a sostegno delle attività costrette a chiudere completamente o parzialmente, la Cgia sottolinea che lo Stato, le Regioni e i Comuni hanno il diritto/dovere di predisporre tutte le limitazioni che ritengono utili per tutelare la salute pubblica. E’ altresì evidente che a fronte della chiusura delle attività economiche, queste ultime devono essere aiutate economicamente in misura maggiore di quanto è stato fatto fino ad ora.

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«E’ vero che questa ulteriore spesa corrente contribuirebbe ad aumentare il debito pubblico – spiega lo studio della Cgia -, ma è altrettanto vero che se non salviamo le imprese e i posti di lavoro, non poniamo le basi per far ripartire la crescita economica, unico “strumento” in grado di ridurre la mole di debito pubblico che sta minando il futuro del nostro Paese. La situazione odierna, però, è diversa da quella vissuta nella primavera scorsa. Se allora tutte le imprese erano state costrette alla chiusura ed erano rimaste aperte solo quelle essenziali, oggi gran parte delle attività sono aperte e, in massima parte, sono state oggetto di restrizioni alcuni settori ubicati nelle regioni ritenute più a rischio contagio».

A queste attività chiuse per decreto, pertanto, non sono più sufficienti dei semplici ristori, ma è necessario uno stanziamento che compensi quasi totalmente sia i mancati incassi sia le spese correnti che continuano a sostenere. La stessa cosa va definita anche per quei comparti che seppur in attività è come se non lo fossero.

La Cgia segnala, in particolar modo, le imprese commerciali ed artigianali ubicate nelle cosiddette città d’arte che hanno subito un tracollo delle presenze turistiche straniere e,in particolar modo, il trasporto pubblico locale non di linea (bus operator, autonoleggio con conducente e taxi) che sebbene in servizio hanno i mezzi fermi nelle rimesse o nei posteggi.

«Limitatamente alle figure artigiane e commerciali – si legge ancora -, inoltre, sarebbe necessaria una deroga all’attuale normativa in materia contributiva Inps, eliminando il versamento riferito al minimale prestabilito, consentendo così agli interessati al solo versamento dei contributi calcolati sull’effettivo reddito prodotto negli esercizi 2020 e 2021. Ricordiamo che per l’anno in corso il reddito minimale considerato per i commercianti e gli artigiani al fine della contribuzione previdenziale sfiora i 16.000 euro. Di conseguenza, poiché i commercianti e gli artigiani hanno un’aliquota del 24 per cento circa, il contributo minimale che dovrebbe essere eliminato consentirebbe un risparmio pro capite di circa 3.850 euro».

Misura che potrebbe essere applicata solo per le attività ubicate nelle città d’arte, consentendo comunque alle stesse la contribuzione figurativa in capo all’Inps, e su base volontaria, invece, per tutte le altre aziende. In questa ultima ipotesi, il mancato versamento del minimale andrebbe a condizionare il computo dell’assegno pensionistico.

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