L’allora 17enne l’avrebbe colpita con schiaffi per svegliarla
Negli atti dello stupro di gruppo ai danni di una ragazza oggi ventenne, consumato lo scorso 7 luglio al Foro Italico di Palermo, emerge il mancato pentimento dell’unico dei sette imputati minorenne all’epoca dei fatti. Nelle motivazioni della sentenza che lo ha condannato a otto anni e otto mesi, il Gup del tribunale dei minori del capoluogo siciliano, Maria Pino, riporta alcune frasi pronunciate in messaggi vocali mandati a un amico, poi recuperati dal di lui cellulare: «Cumpà, l’ammazzammu (compare, l’abbiamo uccisa, ndr)! Ti giuru a me matri, l’ammazzammu (giuro su mia madre, l’abbiamo uccisa, ndr)! Ti giuro a me frati sviniu (ti giuro su mio fratello, è svenuta, ndr), più di una volta». E all’interlocutore, che gli rimproverava di avere fatto una cosa sbagliata lui rispondeva: «Ah ah ah ah, troppo forte, invece».
La ragazza e i complici, processati a parte dal tribunale ordinario, avevano attribuito all’allora minorenne, un ruolo di particolare accanimento e cattiveria: lui stesso l’avrebbe colpita al seno con schiaffi, per svegliarla e per indurla a fare sesso anche con lui.
Il pentimento
E ancora, dagli interrogatori resi dall’imputato, osserva il giudice, emerge come egli «non abbia neppure avviato il processo di rivisitazione critica della propria condotta a cui, sin dal suo ingresso nell’istituto di pena minorile, l’equipe dedicata si era impegnata a orientarlo. A prescindere da una generica dichiarazione di pentimento – prosegue la motivazione della sentenza – invero non si registra alcun distanziamento dal fatto». Non solo: «L’unico giudizio di disvalore è espresso da lui nei confronti della ragazza, definita una poco di buono».
Da qui la severità della condanna, andata oltre la richiesta (otto anni) del pm: «Le modalità dell’asservimento conseguito in pregiudizio della giovane – scrive il giudice Pino – sono nettamente connotate da speciale efferatezza e denotano un assoluto difetto del più elementare senso di umanità. Sono state invero inflitte alla ragazza sofferenze con evidenza costituenti perfino un quid pluris rispetto all’attività necessaria ai fini della consumazione del reato e univocamente indicative di allarmante, non comune brutalità. La pena – conclude la motivazione della sentenza – va dunque determinata con speciale rigore e tenendo conto delle importanti esigenze rieducative del giovane, che certamente richiedono un percorso lungo e impegnativo».



