Il Sud esca dal «cul de Sac» dell’assistenzialismo forzato e punti alla dignità del lavoro

Pnrr: obiettivi raggiunti, ma bisogna passare dalla teoria della programmazione alla pratica della realizzazione

La prima finanziaria del governo Meloni è legge di bilancio 2023. Certo, come dicono le opposizioni – che giocano la propria partita – è una manovra da «nozze coi fichi secchi», ma visti i tempi e le poche risorse a disposizione e la necessità di destinare quelle disponibili soprattutto ad alleviare le criticità prodotte dalla crisi energetica – non poteva essere che così.

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Di più, perché scritta in poco più di un mese, da una maggioranza eletta il 25 settembre, «nata» il 26 ottobre e approvata il 29 dicembre «con un giorno d’anticipo rispetto alle precedenti» ha detto la premier, nell’aprire la Conferenza Stampa di fine anno. E questo nonostante gli impegni del governo, durante la sua «gestazione».

Non ultimi quelli internazionali e i 30 obiettivi, eredità dall’esecutivo Draghi, da predisporre a completamento dei 55 da presentare entro il 31 dicembre per ottenere i 20 miliardi della seconda rata 2022 del Pnrr. Ed anche questo traguardo è stato raggiunto e ufficializzato, come da noi anticipato la settimana scorsa, mentre buona parte del mondo dell’informazione gufava contro questo risultato e continuava a metterne in dubbio, la riuscita. Così come è diventato legge – anche se dopo insulti e gestacci – la Camera ha detto «si» alla conversione in legge del primo atto di questo governo quello Rave.

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Ora, però, bisogna passare dalla teoria alla pratica

Ma attenzione, siamo, ancora, soltanto agli inizi. Dalla teoria della programmazione bisogna passare alla pratica della realizzazione entro il 2026. «L’anno che verrà», insomma, sarà tutt’altro che facile anche sul fronte del Pnrr. Dei 44miliardi già ricevuti (24,9 di prefinanziamento, agosto 2021; 11,5 a fine 2021 e 11,5 prima rata 2022) che, secondo le previsioni di Draghi, avremmo dovuto spendere finora, se ne avessimo utilizzati effettivamente, almeno, la metà sarebbe «tutto oro che cola», ma non ci siamo riusciti. E ora ne arriveranno altri 20.

Da qui l’esigenza di rimettere mano al processo decisionale per accelerare la spesa e fronteggiare i barocchismi procedurali. Perché è da adesso in avanti che si parranno: nobilitade, credibilità, capacità realizzativa, il successo del Pnrr e, di conseguenza, il futuro dell’esecutivo Meloni e quello dell’Italia prossima ventura.

Che dipenderà dalla determinazione d’intervenire in maniera strutturale e concreta su Previdenza, Assistenza, Fisco (la legge delega dovrebbe arrivare entro febbraio) e sulle riforme della Giustizia, del Presidenzialismo, della pubblica amministrazione, della semplificazione della burocrazia (che non significa tagliare i funzionari, bensì semplificare le procedure) e dei rapporti fra Stato, imprese e famiglie, sulla qualità del sistema sanitario, della scuola, della cultura e della formazione, che potrebbe fare da supporto alla trasformazione dei percettori di reddito di cittadinanza in lavoratori occupati perché formati.

Nonché dalla velocità con la quale si riuscirà a dare il via al processo di rinnovamento e realizzazione delle grandi opere energetiche (hub mediterraneo al Sud, rigassificatori, energie rinnovabili, ecc.) e infrastrutturali (alta velocità soprattutto nel Mezzogiorno, Ponte sullo stretto, ferrovie in Sicilia, ecc.) di cui il Paese ha bisogno e senza le quali non potrà mai crescere.

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Per la mancanza delle infrastrutture, l’export ci ha rimesso 77 miliardi

Lo dimostra una ricerca dei consorzi agrari italiani che ha rilevato come a causa della vecchiaia, l’inefficienza e l’insufficienza delle infrastrutture per la mobilità quest’anno l’Italia ha perso ben 77 miliardi di esportazioni. E scusate se è poco. Una criticità che ha investito – e investe – tutti i settori produttivi: meccanica (-20 miliardi), Chimica (-13), Metalli (-9,6), moda (-8,2), Alimentare (-7,8). Con il World Economica Forum che ci ha relegato agli ultimi posti delle classifiche fra i paesi industrializzati per la logistica: al 17° nella classifica generale, al 24° per trasporto marittimo, al 19° per quello aereo e al 15° per quello ferroviario.

Il Nord ha bisogno del Sud, più che quest’ultimo del Nord

Divari inaccettabili perché si tratta di ritardi che condizionano l’Italia del tacco che – proprio in conseguenza di questi ritardi – vede aumentare ogni giorno di più i suoi ritardi nei confronti del Nord ed è costretta ogni giorno di più a rifugiarsi nell’assistenzialismo. Non è un caso, infatti, che proprio al Sud gli assegni pensionistici – e non solo quelli «figli del lavoro» – superano stipendi e contratti di lavoro. E si registra il record del reddito di cittadinanza.

Ma sul piatto della bilancia pesa anche la decisione che prima o poi – ma più prima che poi, viste le pressioni che vengono da Bruxelles – bisognerà prendere, circa la ratifica del Meccanismo Europeo di Stabilità. Che Meloni, comunque, ha deciso di ratificare, ma, giustamente – visto i vincoli eccessivamente stringenti che rendono pericolosissimo ricorrervi, tant’è che finora a parte la Grecia, nessuno dei 27 Paesi dell’Unione vi ha fatto ricorso – ha ribadito di non avere alcune intenzione di utilizzare.

Laddove, però, la maggioranza di centrodestra si gioca la propria credibilità è la messa a punta di quella politica industriale che in questo Paese, manca da tempo immemorabile.

E appesantisce, e non di poco quei dossier, di cui palazzo Chigi discute e si trascina dietro da tempo, fra cui: Ex Ilva di Taranto (pronto il prestito ponte di 680milioni, per aumentarne il capitale e consentire ad Invitalia di arrivare al 60% del capitale), Tim, Ita, chip, automotive che fanno ballare ben 25mila posti di lavoro. Non sarà facile, né veloce, ma bisogna crederci e lavorare per riuscirci. E soprattutto è necessario che il Nord si renda conto che da solo non va da nessuna parte. Ha bisogno del Sud, più che questo abbia bisogno di lui.

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