Referendum sul taglio parlamentari: il 20 e 21 settembre perché votare «no»

Tagliare i parlamentari senza una riforma del sistema riduce la democrazia. Nell’occasione del referendum bisogna votare per dare prova, che ancora nella Repubblica Italiana e sul suo territorio risiede una comunità di cittadini attenta, vigile responsabile.  Dicendo «NO» si pone un freno al piano eversivo dei Cinque Stelle, perché non si può disarticolare un sistema senza promuovere una riforma credibile che coniughi governabilità e controllo parlamentare, scelte coscienti associandoli a governi che esercitino i propri poteri all’insegna dell’autonomia da lobby e logiche transnazionali. Si vota NO il 20 e 21 settembre, perché è l’unica decisione possibile.

Qualche amico immagina ancora che a decidere ci sia un governo libero da veti ed interdizioni parlamentari, non percependo che da quasi nove anni si sono costituiti governi con Dominus non eletti, con la scusante che la fiducia, chiesta in parlamento, rimane l’unica fonte utile a legittimare l’esercizio dei poteri costituzionali da parte della Presidenza del Consiglio. Senza una riforma che accompagni il taglio dei parlamentari, in ragione di una diversa rifunzionalizzazione del sistema, si rischia di approdare a qualcosa di mostruoso, ovvero ad un Leviatano che fa del consenso un orpello di dubbia efficacia, laddove non conduce alle scelte della premiership.

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Il voto, adesso ed in siffatte evenienze, serve cioè solo a far credere che la democrazia esiste nelle forme senza che abbia la sostanziale fisionomia del principio secondo cui lo «scettro appartiene al popolo». L’ultimo paradosso è proprio di questi giorni, laddove l’OMS decide di mettere a capo della proponenda riforma della sanità Mario Monti, senatore a vita della Repubblica Italiana, che quando fu Presidente del Consiglio, su nomina ottenuta senza consenso democratico, mise in ginocchio con i propri tagli finanziari il funzionamento dell’organizzazione sanitaria, minando alla radice la somministrazione delle cure necessarie anche ai tempi del COVID-19.

Per cui se non si riparte dalla democrazia, partecipata e vissuta come metodo, si fuoriesce dalle ragioni dello stare insieme, in maniera cotituzionalmente protetta, all’insegna delle libertà fondamentali.

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In questo senso va dato atto che «Le democrazie sono, a modo loro, sistemi viventi. Dobbiamo quindi identificare e analizzare, in maniera lucida e critica, i dispositivi che, in una democrazia, controllano e correggono gli inevitabili imprevisti e disfunzioni, sia interni sia esterni, che la sua stessa esistenza le pone di fronte. Sono tali meccanismi a renderla robusta, e ad assicurarne la sopravvivenza. La robustezza di una democrazia rappresenta la sua assicurazione sulla vita».

Così definisce il sistema Philippe Kourilsky, chiarendo, nel contempo, che vanno associati al significato di democrazia i concetti di robustezza e complessità, centrali nella biologia, mettendo in luce i difetti che ne spiegano l’attuale crisi: difetti nell’altruismo, che è la base per la solidarietà; difetti nella capacità di confronto e nello scambio di idee, che consentono la partecipazione alla vita democratica; difetti di efficienza, senza la quale non c’è alcun benessere.

Solo da questa aggiornata consapevolezza la democrazia assume un senso condiviso, sì da generare sicurezze, coniugandola alla bellezza del vivere insieme in una comunità, fatta di partecipazione e cure, per uscire dalle oligarchie, ovvero dal governo dei pochissimi. Solo così si potrà uscire dalla dispotica versione di una politica che prescinde dai fatti e sposi la logica delle arbitrarie imposture. La politica solo così tornerà credibile secondo i criteri di rappresentanza e rappresentatività. E solo così si uscirà dalla perversione che vuole la politica luogo di parole vuote, senza idee e territori; così dovrà essere la politica senza ambiguità, se non si vuole danzare l’ultimo ballo sul Titanic.

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