In un’Italia che sta uscendo a fatica dal dramma dell’epidemia del Covid-19 con ancora ben visibili le cicatrici delle tante morti e dei tanti lutti, esplode la vicenda della mancata nomina di Nino Di Matteo a capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). Un caso che coinvolge il governo direttamente al suo cuore, il ministero della Giustizia, e nella persona di Alfonso Bonafede, il capodelegazione del M5S nell’Esecutivo.
Basta poco, quindi, per capire che quanto sta accadendo mette rischio la tenuta della maggioranza e del governo stesso. E apre la porta ad una crisi che mai come in questi giorni in tanti preconizzano ma che nessuno, al momento, sembra se ne voglia assumere la paternità.
E’ il caso però di fare un passo indietro, a domenica sera quando a trasmissione inoltrata su La7 a ‘Non è l’arena‘ di Massimo Giletti, che sta affrontando la notizia delle dimissioni di Basentini al vertice del Dap, arriva una telefonata. All’altro capo del telefono c’è il consigliere del Csm, Nino Di Matteo, icona vivente della lotta antimafia, il magistrato simbolo della trattativa Stato-Mafia, minacciato di morte da Cosa Nostra al punto da essere una delle persone con il livello di tutela più alto d’Italia.
Telefona perché vuole chiarire perché non è arrivato al vertice del Dap. Non perché ‘trombato’, non perché inadeguato o altro. Anzi spiega che lui nemmeno aveva pensato a quella poltrona e che a proporgliela era stato il ministro Bonafede in persona. Una scelta delicata e perciò si prende 48 ore di tempo per decidere, ma a farlo saranno altri per lui. A partire dai boss al 41 bis che hanno paura che Di Matteo diventi capo di tutte le carceri italiane, perché «se nominano Di Matteo è la fine». E così alla fine delle 48 ore è proprio Bonafede, lo stesso ministro che aveva fatto la proposta, a ritirare l’offerta per una poltrona meno ‘scomoda’, quella di direttore generale del ministero.
E’ una bomba sganciata a tardissima serata, tanto che tutti i giornali ‘bucano’. Ma la polemica, come era naturale attendersi, scoppia ugualmente il giorno dopo. Troppo grave perché non avesse conseguenze. Tra maggioranza e opposizione si segue il solito spartito con la prima che fa quadrato attorno al ministro e la seconda che ne chiede le dimissioni. Giorgia Meloni che dice che «ai disastri si aggiungono le ombre»; il capo politico del M5S, Vito Crimi, che parla di «attacchi politici» o «congetture prive di fondamento» che «non scalfiscono la fiducia mia e del M5S nei suoi confronti». E infine anche il premier Conte per telefono, al termine della giornata, esprime ‘piena fiducia’ nell’operato di Alfonso Bonafede come ministro della Giustizia.
E i due protagonisti? Il ministro Bonafede si difende: «L’ipotesi di essermi lasciato condizionare dalle parole pronunciate in carcere da qualche boss mafioso è tanto infamante quanto infondata e assurda». Ma Di Matteo insiste chiarendo che «i fatti che ho riferito ieri li confermo e non voglio modificare o aggiungere alcunché né tantomeno commentarli».
Fin qui la cronaca politica che non esaurisce la vicenda e soprattutto non spiega tutto. E’ lecito chiedersi come mai Di Matteo, uomo delle Istituzioni, che ricopre l’incarico di consigliere all’interno dell’organo di autogoverno della magistratura abbia deciso di sferrare un attacco così poderoso non soltanto al ministro ma al governo intero. Infatti, l’ex magistrato di Caltanisetta è uomo troppo navigato per non sapere che le sue parole avranno un impatto immediato e dirompente sul governo. Tanto da poterlo mettere in crisi. Perchè Di Matteo ha deciso di fare questa ‘confidenza’ davanti a milioni di italiani?
Non è difficile capire che puntare il dito contro Bonafede, affibbiandogli l’accusa più infamante per un Guardasigilli, quella di essere alla mercè dei mafiosi, significa spingerlo sul baratro delle dimissioni. E se poi il ministro è nel governo il capo delegazione del M5S, movimento che ha fatto dell’onestà uno dei suoi dogmi irrinunciabili, è chiaro che a rischio è tutto il governo.
Un governo che da giorni vive un momento di estrema difficoltà, con venti di crisi che soffiano di nuovo impetuosamente. In bilico al punto che molti contano le settimane che mancano alla caduta dell’Esecutivo. In un contesto come questo, così sospeso, arriva l’affondo di Di Matteo che, peraltro, per il M5S è una sorta di modello e guida spirituale
Per questo forse sarebbe il caso di dirlo chiaramente, e cioè se qualcuno vuole far cadere questo governo lo faccia apertamente. Non siano sparsi veleni nel cuore delle nostre Istituzioni, non venga versato un distillato di cianuro nelle vene della nostra Nazione, insinuando il dubbio dell’ennesimo atto di deferenza dello Stato nei confronti della mafia. Peraltro, in un momento in cui Cosa Nostra non è più forte come un tempo e quindi talmente capace di condizionare la politica italiana.
Sarebbe un’operazione devastante anche perché nel momento più delicato per gli italiani che da questo Stato sono privati delle libertà fondamentali e verso cui proprio adesso dovrebbero provare e tributare il massimo della fiducia. Sarebbe un’azione non soltanto spregiudicata ma soprattutto immorale.
Se si vuole mandare a casa questo governo, che per tasso di incompetenza e approssimazione non è secondo a nessuno nella storia repubblicana, lo si faccia alla luce del sole rinfacciandogli i tantissimi errori e le enormi incapacità. A partire da come ha gestito l’emergenza Covid-19 con un’ipertrofia comunicativa dove soltanto i like contavano, a forza di Dpcm e di promesse di fondi e aiuti finora mai arrivati.
Gli italiani non meritano una crisi di governo ‘sporca’, un simile trattamento. Le tantissime sofferenze e i drammi quotidiani di migliaia di italiani impongono rispetto.
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