L’Europa verso il suicidio, con il contributo dei propri leader e il controllo dell’immigrazione incontrollata

La recensione
‘La Strana morte dell’Europa’ di Douglas Murray

Sud Gennaro Malgieri Feltri
Gennaro Malgieri

L’Europa è preda di un’aggressione nichilista che ne sta erodendo le fondamenta culturali. È malata, e non soltanto di coronavirus. La pandemia durerà il tempo che dovrà durare, ma prima o poi avrà fine. Il morbo che insidia l’identità europea non sappiamo quando finirà. E se finirà. Potrebbe anche prolungarsi fino alla dissoluzione del nostro Continente. E, francamente, molti indizi lo lasciano prevedere.

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La decadenza demografica e politica testimonia, più d’ogni altro aspetto, che l’Europa sta suicidandosi. L’immigrazione incontrollata la ‘controlla’ e la tiene in scacco, la sua decomposizione, grazie a sconnessi sovranismi che non fanno acquistare maggiore sovranità alle diverse nazioni, è la testimonianza eloquente dell’autodistruzione che ha abbracciato come una squadra di football che gioca invertendo i ruoli di attacco e difesa, mentre il portiere dà le spalle al campo. Neppure la Chiesa, avendo rinunciato alla missione evangelizzatrice dell’Europa che una trentina d’anni fa lanciò con sacro furore San Giovanni Paolo II, è in grado di metterci riparo e spira, mescolato al ‘fumo di Satana’ evocato da Paolo VI, un sottile vento luterano tra le sue fibre, come se stesse definitivamente mondanizzandosi.

La strana morte dell’Europa – che titolo suggestivo e aggressivo per un libro intelligente e appassionato di un conservatore ‘consapevole’ – di Douglas Murray che la vive come tutti noi, stupito della mancanza di reazione tra il suicidio continentale, l’omicidio elevato a regolamento demografico e l’islamismo che ha apertamente lanciato la sua sfida alla Cristianità. «L’Europa si sta suicidando… Ancora pochissimi anni e non sarà l’Europa e i popoli europei avranno perso l’unico posto nel mondo che dovevamo chiamare casa», scrive lo studioso britannico che fino a poco tempo fa quasi nessuno conosceva in Italia, in questo nostro paese che accompagna con l’ignoranza il feretro europeo verso la sua estrema dimora.

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Nel mondo anglosassone, il quarantunenne filosofo Douglas Kear Murray (nato il 16 luglio 1979) si è guadagnata una meritata fama tra gli analisti conservatori studiando il neo-conservatorismo, quando furoreggiava negli Stati Uniti al tempo di George W. Bush. Si trattava di un pasticcio piuttosto ambiguo, egemonizzato ideologicamente da studiosi post-marxisti, ‘molestatori’ del progressismo di Berkeley che pure avevano frequentato, aspiranti guru di quella ‘tentazione’ americana che non pochi guai ha combinato: l’esportazione della democrazia in Afghanistan e in Iraq.

Murray non si lasciò sedurre dal movimento: un inglese, per di più realista e colto, non si lascia traviare dalle elucubrazioni che di frequente escono dal Pentagono. Scrisse un libro, Idee per un nuovo conservatorismo (pubblicato in Italia da Pagine nel 2009) nel quale precisando la tendenza, mentre difendeva il rinnovamento del conservatorismo, aggiungeva che «Il neoconservatorismo non è un nuovo conservatorismo». E con questo poneva le basi di una definizione che conteneva una strategia politica. Poiché, voleva dire, che non si poteva trattare il neoconservatorismo come la riverniciatura di un partito, ma della rifondazione dello stesso facendo convivere in esso i principi ispiratori con le istanze della modernità, sul piano culturale oltre che nell’ambito propriamente politico.

Era il tempo, post-thatcheriano, in cui il conservatorismo britannico o si rinnovava o moriva. La cura Cameron è stata nociva, poi la questione Brexit e l’indeterminatezza della May hanno aggravato la situazione. Boris Johnson ha rimesso le cose a posto, ma ci si chiede: dopo la Brexit che ne sarà dei conservatori britannici? Non ingannino i successi legati ad una vicenda trasversale: il partito è ancora alla ricerca di una fisionomia riconoscibile dall’elettorato e di una strategia di lungo termine che possa farlo diventare coerente con le aspettative del suo mondo di riferimento.

Se dovesse fidare esclusivamente sulle ‘disgrazie’ dell’avversario, il partito conservatore avrebbe vita grama ed effimera. Dunque, per scansare questo pericolo, non può che darsi una struttura ideologica, culturale e politica che regga all’urto della sfida con i nuovi problemi che agitano la società britannica non meno di quella, più complessiva, europea. A questo riguardo, i conservatori sono chiamati innanzitutto a dare una risposta, possibilmente in linea con il realismo che tradizionalmente li caratterizza, al rapporto che intendono avere con l’Europa non come soggetto politico o organizzazione di Stati. Ma non basta.

Se il conservatorismo che sembra stia riemergendo, ritiene che la sua modernizzazione si possa risolvere in un approccio superficiale ‘adottando’ la cultura ambientalista ed accentuando la sensibilità verso i diritti civili, oltre che recuperando le tematiche legate alla ‘big Society’ si sbaglia di grosso. La questione ambientale come quella più vasta di carattere sociale, sono aspetti costitutivi di una politica nuova, come a suo tempo, e con comprensibile diversa intensità, lo sono stati di quella della Thatcher, che tuttavia non esauriscono una politica conservatrice.

Il fallimento culturale del conservatorismo britannico è «il sintomo di una spaccatura profonda e sismica di persone che si è aperta nella vita britannica; il sintomo di un Paese di persone che si sono profondamente perse lungo la loro strada; la caratteristica di una nazione… inconsapevole della direzione in cui sta andando», scrive Murray. Per lui tale deriva, fin dal tempo dell’uscita del volume che abbiamo ricordato, «si sta muovendo verso ideali pericolosi», verso una strada che probabilmente non porterà da nessuna parte. E per questo deve assumere una fisionomia che lo ponga alla testa dei grandi temi del nostro tempo, come, per citare l’ultimo dirompente suo saggio dal quale abbiamo preso le mosse, La strana morte dell’Europa (Neri Pozza), una morte che vediamo avanzare perfino nella mancanza di coesione continentale nel combattere un alieno inaspettato che sta sacrificando vite umane davanti alla nostra dabbenaggine irrorata da egoismi e inettitudini politiche.

La morte è la decadenza del Vecchio Continente e con esso dell’Occidente, grazie ai tre fattori che abbiamo sommariamente accennato e che non possono essere sottovalutati: il radicale cambiamento della composizione etnica, culturale e religiosa dell’Europa che l’immigrazione comporta; il naufragio del multiculturalismo del quale Angela Merkel si è resa conto e lo ha detto esplicitamente: «Il tentativo di costruire una società multiculturale e di vivere a fianco in armonia è fallito, miseramente fallito»; l’illusione di affidare l’integrazione alla «società dei consumi», al materialismo pratico, allo scetticismo verso ogni progetto che trascenda il relativismo.

I conservatori possono invertire la rotta? Senza dubbio. Ma per farlo devono mettere in campo qualcosa che è profondamente «non conservatore»: devono diventare, in altri termini, «nuovi conservatori», conservatori radicali, conservatori rivoluzionari. Devono, cioè, esercitare la politica del cambiamento, come prospettiva di una riconquista non effimera del potere, ma ancor più della società britannica.

Scrive Murray: «L’Europa si sta suicidando, almeno nelle intenzioni dei suoi leader. Che gli europei siano d’accordo, tuttavia, è ancora da vedere. Quando dico che l’Europa è avviata verso l’autodistruzione non mi riferisco a norme e regolamenti della Commissione Europea diventati peso insostenibile o alle lacune della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che non basta a soddisfare le esigenze di determinati gruppi di cittadini, ma al fatto che si sta suicidando la civiltà che va sotto il nome di Europa e né la Gran Bretagna né nessun altro paese europeo riuscirà a evitare tale destino perché tutti soffriamo degli stessi si tomi e delle stesse malattie».

Quindi il conservatorismo non si deve limitare ad un semplice tentativo di rinvigorire elettoralmente il partito conservatore, ma ad espandere la base stessa del conservatorismo rivitalizzando ciò che è già acquisito, soprattutto ‘contaminando’ quel mondo che aveva visto nel New Labour la possibilità di far uscire la Gran Bretagna dalle secche dell’impoliticità e darle un ruolo sullo scenario internazionale non meno che nella creazione di una nuova cultura. Giustamente Murray osserva: «Quando il partito laburista si è ridefinito come ‘nuovo partito laburista’ era in primis un esercizio di marketing (anche se di estremo successo). Qualsiasi dubbio su questo divenne chiaro quando il nuovo partito laburista, in carica, era ancora alla ricerca di una filosofia. Dopo otto anni di governo laburista, la vasta filosofia dei nuovi laburisti è tanto fangosa e non chiara come è sempre stata».

Il fallimento del partito che fu di Blair è imputabile all’incapacità di «mescolarsi» con la società dopo averla blandita e, dunque, di contribuire a cambiarla. Il neoconservatorismo, sostiene Murray, al contrario, deve fornire risposte morali e pratiche, contrapponendo una visione del mondo generale al malessere originato dalle politiche fino ad oggi seguite. Insomma, «se il partito conservatore vuole ritornare in carica deve cambiare. Deve diventare in un certo senso nuovo partito conservatore. Affinché si possano sostenere i principi conservatori, adattandoli a problematiche nuove all’interno dei nostri confini». Ed individuare nella «strana morte dell’Europa» il fondamento per chiamare alle loro responsabilità tutti gli europei, un po’ come voleva il compianto Roger Scruton, l’ultimo grande conservatore europeo che ci ha lasciato pochi mesi fa. Più soli, più disorientati nel contemplare una «strana morte» che nulla sembra avere di umano, come la pandemia che ci sta decimando.

Gennaro Malgieri

Setaro

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