Seicentosettantamila euro non bastano a ridare l’onore perduto a Contrada

Questa è una storia lunga e tortuosa, almeno quanto lo è il dolore di una vita distrutta senza un motivo, una storia di coincidenze o, forse, di segni, costume del popolo napoletano, una storia di un’ingiustizia consumata e ammessa nel tentativo di essere riaccreditata e di una giustizia che ha miseramente fallito.

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Questa è la storia di Bruno Contrada, Dirigente Generale della Polizia di Stato, condannato per l’inesistente reato – o se vogliamo all’uopo inventato – di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo aver giurato tre volte fedeltà alla Patria, a 22 anni da Bersagliere e poi due volte in Polizia raggiungendone i massimi vertici sino a diventare, da vicecommissario, un applicato ai Servizi di Sicurezza della Repubblica. Personalità cresciuta a Patria, Italia e Stato, valori che sono divenuti sostentamento anche in carcere dove si è «guadagnato» la buona condotta cercando di trasmettere agli altri detenuti i suoi valori comportamentali.

Gli stessi valori ben radicati e mai scalfiti che lo hanno sorretto nella trentennale odissea giudiziaria, durante la quale si è visto privare del servizio che era la sua vita e finanche della pensione per vivere, dell’affetto della moglie Adriana, scomparsa l’anno scorso, troppo presto per vedere la giustizia di questo mondo, fino a dover ingaggiare una lotta con la sofferenza per malattie personali e per quelle di un figlio poliziotto ammalatosi in conseguenza delle accuse rivolte al padre.

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La Corte dei Diritti dell’Uomo ha definitivamente stabilito che il dottor Contrada non solo non andava incarcerato, ma nemmeno processato quindi non avrebbe dovuto scontare un solo giorno di detenzione per cui, tramite la Corte Di Appello di Palermo, gli ha corrisposto un risarcimento di 670 mila euro. Come se i 670 mila euro potessero riportare in vita la signora Adriana e chissà, dopo i tortellini in brodo di quel 24 dicembre, data del primo arresto e riproposti in pieno luglio quando il marito fece ritorno a casa, con quale piatto avrebbe accolto la giustizia ritrovata.

Una cifra che non ridà la vita e la carriera da servitore dello stato al giovane Contrada, che non cancella le pene patite da altri membri della famiglia cresciuti – umanamente e professionalmente – anche loro nella legalità. Che non riacquista l’onore macchiato, non attenua la dolenza dell’infamia ingiusta che ti consuma il corpo. Per fortuna non la mente: lucidissimo ottantanovenne, battutosi come un leone, accettando perquisizioni in piena notte e isolamento nel carcere di Palermo, aperto solo per lui, appositamente per lui.

Questo per l’Italia è il prezzo della libertà, quell’Italia servita e vista soccombere sotto le carte del ricorso a Strasburgo, quella Patria giurata e per la quale egli soffriva soltanto a leggere «Bruno Contrada contro l’Italia». Quella parte di Italia che, ancora oggi, tramite certi addetti ai lavori continua a «colorare le sentenze« anziché rispettarle – come la deontologia più spicciola imporrebbe – e si ostina a far polemica sui tempi in cui cade il risarcimento, in piena emergenza sanitaria.

Ma forse questa è la parte d’Italia che giudica giusto che tutta la sanità sia concentrata nella lotta al comune nemico e non vede che è paralizzata sugli altri fronti non meno importanti ed altrettanto mortali: chemio, operazioni chirurgiche, assistenza ospedaliera. Che è un po’ come vedere che il risarcimento – che non vale nemmeno mezza vita distrutta di una delle tante persone coinvolte – sia a carico del contribuente non dicendo, però, quale sia stato il costo di 28 anni di accanimento giudiziario quindi il flop di tante ideologie politiche e certe carriere.

Come se Bruno Contrada avesse scelto anche i tempi di risarcimento, un tempo che è di un temibile virus che costringe tutti a stare in casa e che non cambia le abitudini di Contrada, già forte di anni di comprovata immeritata prigionia. Chissà se questo confinamento imposto anche ai ‘sani’, almeno supposti, potrebbe far pensare a cosa significhi essere imprigionato senza motivo, essere costretto ad espiare colpe che non sono tue e attendere che pareri terzi ti restituiscano alla libertà.

Quella libertà promessa e ostentata come le parole della politica, i discorsi scambiati per proclami, i decreti per legge. Quella politica che straparla, ma non conclude, quella che promette e non concretizza, quella che è troppo presa da eurobond, curve e fasi e non riesce a pronunciare le scuse istituzionali verso un Uomo dello Stato, un Servitore della Patria, un suo prigioniero che non ha tradito, una vittima e non un colpevole.

Un silenzio eloquente ed assordante che forse è il grido più forte, così come quello del dottor Contrada che mettendoci ancora una volta la faccia e aggrappandosi a quella sua dignità identitaria dice di non essere interessato al risarcimento che è e sarà sempre ingiusto, che a fronte di mezzo milione di euro riesce e preferisce ancora vivere con una dozzina di euro al giorno.

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