LA RECENSIONE | Sedici anni di accuse, assoluzioni e silenzi
Se il tuo ideale di lettura è un noir giudiziario in cui i veri colpi di scena non sono generati dall’immaginazione dello scrittore ma da una realtà più assurda della fiction, allora «Anatomia di un’ingiustizia» è il libro che fa per te. Luca Maurelli ci accompagna in un’odissea processuale lunga sedici anni – più di una condanna, meno di una redenzione – attraverso la storia grottesca e dolente dell’ex ministro Mario Landolfi. Una storia italiana, troppo italiana.
La cronaca giudiziaria si fa letteratura civile in un racconto denso, viscerale e profondamente umano. Tutto ha inizio in Campania, terra bellissima e feroce, a Mondragone, con un’«assunzione sospetta» e l’ombra lunga dei Casalesi. Ma è solo la miccia di una spirale che sfugge al controllo: intercettazioni, pentiti (troppo) smemorati, giornali (troppo) famelici, politici (troppo) pronti al linciaggio, magistrati divisi tra zelo e (troppo) protagonismo.
Eppure – e qui sta una delle più sconcertanti verità del libro – alla fine di tutto, Landolfi viene assolto dalle accuse più gravi: mafia e truffa. Resta solo una condanna a due anni per corruzione legata a un episodio marginale, un fatto di paese. Ma quella che Maurelli racconta non è la storia di un politico che si salva in corner: è il racconto chirurgico – anatomico, appunto – di un sistema giudiziario che, tra pregiudizi territoriali e logiche emergenziali, si dimentica l’uomo per servire la causa. E sbaglia.
Tra le pagine, affiorano personaggi e situazioni che sembrano usciti da un film di Sorrentino: il boss stragista Augusto La Torre, compagno d’infanzia dell’imputato, che in aula afferma cose che avrebbero potuto mutare il corso degli eventi, se opportunamente tenute da conto; Raffaele Cantone, il magistrato simbolo dell’Antimafia, che testimonia in sua difesa; un pentito-jukebox che in aula canta 26 volte «non ricordo» e 3 volte «non lo so» ma viene comunque ritenuto «preciso, puntuale, analitico». E poi Marco Pantani, Peppino Di Capri, le scale di Torre Argentina, Marco Pannella e ancora tanti personaggi e altri aneddoti.
Curiosità, stile e indignazione si intrecciano
Maurelli non costruisce un’apologia, né un atto d’accusa cieco: ciò che emerge è la necessità urgente di una riforma radicale del sistema giustizia, che non si limiti alla separazione delle carriere ma rimetta al centro la responsabilità e il garantismo. Il libro – come già preannuncia nella prefazione Alessandro Barbano – è un campanello d’allarme per una democrazia che rischia di diventare «democrazia giudiziaria».
Perché leggerlo? Per capire cosa può accadere a un uomo quando lo Stato si trasforma in un labirinto con tanto di Minotauro pronto sempre dietro l’angolo, quando l’eccezione diventa regola, quando il diritto si piega al sospetto e, forse, anche alla pressione mediatica. Ma anche per farsi un’idea diversa di Mario Landolfi, l’altro Mario, ben oltre le etichette della politica. E perché sì, come in un grande romanzo, alla fine potresti ritrovarti a parteggiare per il cattivo, un «colpevole d’innocenza».