Il 40 o 56% dei fondi recovery al Sud. Ma pensano di riprenderseli con… i «progetti comunicanti»

Questo per evitare che il Pnrr fallisca. Dov’è scritto che se il 40 o il 56% del Recovery ai spendesse al Sud, finirebbe a carte 48 il «resilienza»?

L’inflazione pesa soprattutto sul Mezzogiorno. Dove mancano infrastrutture, servizi, lavoro e, quindi, c’è scarsezza di reddito. Ma non tutti se ne rendono conto. Ancora prima che Sala e Fontana ne parlassero a telefono, lo hanno dimostrato gli estensori del d.l.

sull’attuazione del Pnrr che – fingendo di non conoscere l’indicazione Ue che il surplus di fondi al nostro Paese doveva servire ad aiutare il Sud a recuperare i ritardi – gli hanno assegnato solo il 40% dei 209 mld. Ancora troppo, secondo qualcuno.

Da un lato, Repubblica ha sottolineato che tale quota non è imposta da Bruxelles che chiede solo di utilizzare i fondi per superare divari e diseguaglianze ed è il caso di pensare a un piano B, per non mandare all’aria l’intero Pnrr. Ovviamente, non dice perché il progetto fallirebbe se il 40% delle risorse venisse utilizzato al Sud. Dall’altro, il biellese Pella di FI, relatore del dl di cui sopra, chiarisce che «i divari non sono solo tra Nord e Sud», per cui «quella quota potrebbe essere vista nel complesso, non per singolo bando».

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In maniera tale da «poter operare compensazioni tra progetti, considerandoli come vasi comunicanti». Magari (come la storia tramanda) in direzione Sud-Nord. Il ministro delle infrastrutture, Giovannini, però, nel rassicurare le imprese che «i costi dell’inflazione negli appalti se li addosserà lo Stato» ha garantito che «per il Mezzogiorno» si sono «posti l’obiettivo del 56% delle risorse, non del 40». Sarà vero?

Nell’attesa di scoprirlo speriamo che riescano a far fruttare al massimo i 6,3 miliardi di Fondi Sviluppo e Coesione 2021-27 cui il Cipess ha dato il via libera per aprire cantieri attesi da anni. Ci riusciranno? Chissà, ma, forse, utilizzando al meglio gli 87 milioni annunciati dalla Carfagna per una task force di esperti (si spera non per amicizie) per aiutare le Istituzioni meridionali a partecipare ai bandi, potrebbero – anzi, dovranno – riuscirci.

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L’egemonia culturale della pandemia

«Grazie al Covid c’è finalmente lo spazio per costruire una egemonia culturale su basi nuove» scriveva, Speranza, all’inizio della pandemia. E con il contributo della maggioranza allargata e, quindi, anche di Lega e FI, c’è riuscito. Ha imposto – e non intende mollare la presa, anche se crescono «no green pass» e «basta restrizioni» – l’egemonia culturale della pandemia in mascherina.

Quella in cui gli unici ad avere diritto alla parola sono Speranza, cts, eurocrati, tecnofinanza e un governo – bocciato 4 volte sul «mille proroghe» – che «sopravvivendo» di fiducie, ha esautorato il Parlamento. «Però, Draghi assicura che si tratta di un governo bellissimo».

Certo, il rapporto debito/pil è in fase calante verso il 150% e il Pil 2021 è salito al 6,5% e, a suo dire, gli investimenti Pnrr lo faranno crescere del 3% da qui al 2026. Ma se tutto va bene, visto che la situazione è ancora difficile, come mai Bankitalia annuncia la fine degli aiuti (anche del reddito di cittadinanza?) perché «mettono in pericolo i conti pubblici»?

Forse, perché, nel 2020 avevamo perso ben l’8,9% di Pil e a febbraio, secondo Confcommercio, calerà dell’1%, mentre i consumi sono già diminuiti del 25% rispetto al 2019 e per le condizioni di clausura in cui sono ancora costretti a vivere i cittadini (poveri, senza green pass, cacciati da mense e dormitori) e perché la scelta: obbligo di vaccinazione o licenziamento per gli over 50, significa perdita del posto di lavoro per quasi un milione di lavoratori.

La crisi economica del Paese

Ma di questo tutti tacciono. Per cui, nessuno, tranne i cittadini nell’infilarsi le mani in tasca, s’accorge della crisi economica del Paese, delle 300mila aziende che hanno chiuso i battenti, e quelle che rischiano la stessa sorte; del milione e mezzo di imprese e cittadini che privati del merito creditizio e sono sull’orlo del fallimento; della disoccupazione che cresce e dell’occupazione sempre più precaria. E della stangata che grazie al caro energia sta ulteriormente appesantendo le difficoltà di tutti. Certo, il governo venerdì ha stanziato altri 6 miliardi per azzerare gli oneri di sistema sull’elettricità e sul gas, del quale si pensa di rilanciare la produzione. Un passo avanti, ma non strutturale. Per cui, l’equilibrio è ancora lontano.

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