Responsabilità editoriale estesa ai creator: tutela dell’informazione o bavaglio digitale?

Una rete più ordinata, certo. Ma anche più sorvegliata

L’avanzata normativa che equipara influencer e creator ai media tradizionali apre un confronto acceso. La protezione del pubblico è un obiettivo importante, ma molti temono che il passo successivo possa essere il controllo della parola e del pensiero online. La trasformazione del sistema comunicativo è un dato di fatto: non sono più solo testate giornalistiche, televisioni e radio a influenzare l’opinione pubblica.

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Oggi una diretta Instagram può raggiungere milioni di persone in pochi minuti, un video su TikTok può cambiare un dibattito politico e un singolo post può generare più attenzione di un’intera puntata di talk show. È all’interno di questo scenario che nasce l’estensione della responsabilità editoriale ai nuovi comunicatori digitali, proposta come risposta alla disinformazione e alla fragilità informativa dell’ecosistema online. Una misura che però divide. E che, per molti, assomiglia più a un potenziale strumento di controllo che a una reale garanzia di qualità.

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Le intenzioni dichiarate sembrano chiare: rendere trasparenti i contenuti sponsorizzati, proteggere i minori, responsabilizzare chi ha un vasto pubblico. Guardata da lontano, una misura ragionevole. Vista da vicino, la superficie si incrina. Chi supera una certa soglia di visibilità sarà sottoposto ad obblighi editoriali simili a quelli di un editore: iscrizione a registri, trasparenza sugli introiti commerciali, possibilità di sanzioni in caso di contenuti non ritenuti conformi. Una rete più ordinata, certo. Ma anche più sorvegliata.

L’effetto domino

Il rischio evocato da molti analisti è l’effetto domino: oggi la norma punta a chi ha grande influenza, domani potrebbe estendersi a chiunque produca informazione in rete. La linea rossa, quella che separa la tutela del pubblico dal filtro delle opinioni, si avvicina pericolosamente. Il web è nato senza centro. È un luogo aperto, spesso caotico, ma vivo. Il problema sollevato dai critici è proprio questo: chi sarà il nuovo arbitro dell’accettabilità? Dove termina la tutela e dove inizia la censura? Se chi parla dovrà adeguarsi a standard editoriali tradizionali, il risultato potrebbe essere un appiattimento del dibattito.

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Il rischio più concreto non è il bavaglio imposto dall’alto: è la autocensura dal basso. La paura di essere sanzionati può rendere più prudente del necessario chi produce contenuti indipendenti, limitando l’impatto di voci scomode o fuori dal coro.

La posta in gioco: la libertà di parola in un ecosistema che evolve La questione non è se l’informazione vada protetta su questo c’è accordo. Il problema è come. Una regolamentazione intelligente può elevare la qualità del discorso pubblico, ma se male calibrata può diventare una barriera, un filtro, un silenziatore elegante. La responsabilità editoriale allargata potrebbe migliorare la trasparenza del digitale. Ma potrebbe anche trasformarsi, gradualmente, in un meccanismo di selezione delle voci.

E le democrazie non si misurano dal numero di parole corrette, ma da quante parole scomode possono essere pronunciate senza paura. La domanda resta aperta, urgente: stiamo costruendo un ecosistema informativo più consapevole o una rete più controllata? La risposta non dipenderà soltanto dalla legge, ma da come verrà interpretata, applicata, interiorizzata. La libertà d’espressione è un organismo sensibile: non muore con un decreto, ma con il silenzio. E quando tutti parlano più piano, forse non è un segno di civiltà ma di prudenza.

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