Nostalgia, rabbia e orgoglio: così la canzone ha raccontato la saga dei nostri emigranti

Dalle melodie popolari ai cartoni animati, il lungo viaggio degli italiani

«Partono i bastimenti per le terre assai lontane… Cantano a bordo: sono napoletani!». Recita così Santa Lucia Luntana, nella sua traduzione italiana, uno dei tanti capolavori di E. A. Mario, scritta nel 1919 dall’autore de “La leggenda del Piave” e di “Rose rosse”. È un vero e proprio inno nostalgico degli emigranti partenopei, e come loro di tutti gli italiani che dal boom demografico dell’Ottocento in avanti sono stati costretti a cercare lavoro e pane oltreconfine.

Un’epopea, quella dei nostri emigranti, che tante pagine musicali hanno raccontato, quasi sempre coi toni struggenti di chi era stato costretto a lasciare la patria dalla fame e dalla povertà e si avventurava in paesi sconosciuti, spopolati, affamati di braccia. Gli italiani, popolo di lavoratori, partivano con biglietti regolari e regolari contratti (non erano clandestini, insomma… Chi ha orecchie per intendere, intenda Ma l’emigrazione era cominciata al nord (nonostante tante leggende anti-unitarie lo vogliano un fenomeno esclusivamente meridionale).

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E dal nord, nella seconda metà dell’Ottocento, viene una delle canzoni folk più famose sul tema: “Mamma mia dammi cento lire”. Era un tema popolare, tipico della val Padana, che raccontava la tragedia di una giovane che convince la madre recalcitrante a darle il denaro per tentare la fortuna emigrando in Argentina, ma il bastimento su cui si imbarca affonda e la ragazza muore, divorata da pesci e balene. Morale della canzone: era meglio ascoltare il consiglio della madre e restare nel paese che avventurarsi oltreoceano.

La denuncia dello sfruttamento e il grido dell’emigrante

L’emigrazione, dunque, è una tragedia: lo racconta anche «‘Ndé piö in America» scritta dai bergamaschi Ferdinando Tarenghi e Alessandro Ferrari Paris nel 1892: un testo di denuncia dello sfruttamento degli armatori e degli agenti dell’emigrazione, oltre che dei capitalisti che avrebbero dato lavoro agli emigranti. Una lezione che ancora oggi i tanti sostenitori della politica delle “porte aperte” non capiscono (o non vogliono capire).

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La sorte degli emigranti italiani era infatti spessissimo triste: “Lacreme napulitane”, scritta nel 1926 da Libero Bovio e Francesco Bongiovanni. “Che sso’ ‘e denare? Pe’ chi se chiagne ‘a patria nun so’ niente” grida l’emigrato in America in una immaginaria lettera alla madre, mentre il Natale s’avvicina in terra straniera: “je ch’aggio perzo ‘a casa, patria e onore, je so’ carne ‘e maciello, so’ emigrante”.

Orgoglio e sacrificio nel cuore della tragedia

Era il dolore di chi era stato costretto dalla fame a lasciare la città natale per andare a lavorare sotto un padrone straniero. Ma proprio in quegli anni c’è un moto di orgoglio fra gli italiani: siamo emigrati, siamo poveri pezzenti, ma siamo un popolo d’onore: è il tema della struggente “Miniera”, tango scritto da Bixio Cherubini e Cesare Andrea Bixio nel 1927 per il popolare cantante Gabrè.

Un incidente in una miniera messicana minaccia di seppellire vive decine di lavoratori. Fra il pianto delle donne e dei bambini, un emigrato italiano, un “bruno esiliato”, si cala nel pozzo e libera i compagni, sacrificando la vita per tutti. L’eroismo dell’italiano ha un sapore amaro: mentre i minatori riabbracciano le madri, per salvare “quello dal volto bruno” nessuno muove un dito.

Dalla denuncia politica ai cartoni della memoria

Nel dopoguerra le canzoni sull’emigrazione assumono sempre più un tono politico: nessuno allora era ancora incapricciato – per superficialità o per interesse – di “diversità” e “meticciato” e dunque spessissimo i cantautori, per lo più di sinistra, denunciavano l’emigrazione per ciò che era: sfruttamento. Vale su tutte citare la terribile “L’operaio Girolamo” di Lucio Dalla e Roberto Roversi (1971), che denuncia la miseria e l’orrore di una macchina capitalista che usa i lavoratori e poi li getta quando, spinti dalla disperazione e dall’abbrutimento, compiono un atto criminale che li porta alla rovina.

Ma con gli anni ’80 l’emigrazione è ormai storia: e a ricordarcela arrivano due cartoni animati entrambi tratti dall’immortale capolavoro di Edmondo De Amicis, “Cuore”, con le loro bellissime sigle TV, a loro modo anch’esse musica popolare. Il primo è “Marco, dagli Appennini alle Ande”, firmato da Isao Takahata e Hayao Miyazaki. Realizzato nel 1976, racconta la storia tratta da “Cuore” del piccolo emigrante genovese Marco Rossi, che parte per l’Argentina in cerca della madre, a sua volta partita spinta dalla miseria.

La serie arriva in Italia sulla RAI nel febbraio 1982 con la sigla di Vince Tempera e Luigi Albertelli (già celebri per “Ufo robot”). Tre mesi dopo, nel maggio 1982, sulle TV private viene trasmesso “Cuore” di Eiji Okabe, in cui la vicenda del piccolo Marco è narrata negli episodi 13 e 14. Nell’edizione italiana la sigla venne affidata a Riccardo Zara e i Cavalieri del Re ed è probabilmente uno dei più belli, nostalgici e commoventi brani scritti durante l’epoca d’oro della televisione italiana.

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