Sono trascorsi 18 anni dal delitto del 43enne assassinato davanti a una pompa di benzina: ancora nessun indagato
Settembre 2006. Erano trascorse quarantaquattro ore dall’omicidio di Modestino Bosco, trovato cadavere in un garage di via Duca degli Abruzzi e a Secondigliano si tornò a uccidere. I killer, in quel caso, agirono in pieno giorno a Secondigliano, tra decine di passanti. Erano in due, viaggiavano in sella a una moto di grossa cilindrata, forse una Transalp o qualcosa di simile. Procedettero contromano per un piccolo tratto del corso Secondigliano scavalcando il cordolo di marciapiede, lo stesso che dopo i lavori di ammodernamento decisi nel quartiere fu rimosso qualche anno dopo. L’azione fu rapida, chirurgica. A sparare fu il passeggero.
Faceva caldo in quel pomeriggio del 4 settembre e i due non indossavano il casco. Agirono a volto scoperto e scapparono in direzione di piazza Giuseppe Di Vittorio, quella che tra i residenti viene ancora chiamata piazza Capodichino. Bruno Mancini, 43 anni, fu freddato dai sicari alle 17,25 sul corso Secondigliano. Spararono per uccidere i killer e fecero fuoco dodici volte. I proiettili gli sfigurarono il volto. Il commando aprì il fuoco e non si preoccupò troppo del fatto che lì ci fossero anche numerosi bambini.
Entravano e uscivano insieme ai papà, alle mamme, alle nonne, dall’Oasi del Bimbo, uno dei pochi parchi pubblici di Secondigliano. I killer, due in sella a una moto di grossa cilindrata, aprirono il fuoco e basta. La vittima era tranquilla, si stava intrattenendo in una discussione con un dipendente del distributore di benzina Tamoil che all’epoca era ancora aperto. Poi gli spari. Per strada, il panico. Chi, suo malgrado, si ritrovò spettatore di un agguato di camorra, cercò riparo nei negozi aperti. Qualcun altro, come per un ancestrale istinto di autoconservazione, si abbassò sulle gambe come a evitare i proiettili. Tutti ammutolirono, come sospesi.
Un sasso in uno stagno
Le numerose persone che si trovavano nei pressi del distributore divennero una cosa sola, allargandosi come anelli d’acqua quando si lancia un sasso in uno stagno. Poi la moto andò via e quella folla che si muoveva come un solo organismo, in pochi secondi, tornò a pulsare simultaneamente, ma in maniera concentrica, convergendo verso la vittima. «È stato terribile, qui non si può vivere», commentò una donna ancora sotto choc mentre copriva gli occhi del figlio con una mano. Non era uno spettacolo per bambini. Poteva avere dieci o dodici anni un ragazzino che, con le mani in faccia continuava a ripetere: «L’hann’acciso… l’hann’acciso…». Un mantra di violenza e di terrore.
Bruno Mancini era disteso sull’asfalto, le scarpe da ginnastica che indossava erano schizzate a due metri di distanza. Il colore della maglia era indefinibile, i proiettili della semiautomatica lo avevano centrato quasi tutti al volto. La camorra di Secondigliano quando uccide non si affida alla casualità, soprattutto nei modi e nei tempi. Sul posto le pattuglie dell’Arma arrestarono la sosta in modo scomposto. C’era tensione tra gli uomini in divisa; troppe volte i militari avevano dovuto fronteggiare rivolte popolari insorte a protezione dell’Antistato.
In pochi istanti, un cordone di carabinieri cinse il quadrato di asfalto dove giaceva il corpo del 43enne. Si tenevano per le braccia, i carabinieri, in attesa che qualche collega portasse un lenzuolo per coprire la vittima e la striscia di plastica bianca e rossa per delimitare la zona. Un’esecuzione di camorra, gli investigatori non avevano dubbi, poi di quel delitto non si è più parlato.
Bruno Mancini, le indagini a un punto morto
Le indagini, probabilmente, nel corso dei mesi o degli anni, sono arrivate a un punto morto, sta di fatto per l’agguato a Bruno Mancini, dopo 18 anni, non ci sono stati né arrestati, né sospettati. nessun mandante, nessun esecutore. Mancini morì, ma forse il suo omicidio era scollato dalle dinamiche camorristiche dell’epoca.
Quando il piombo abbatteva corpi per gli ultimi colpi di coda della prima faida e per le prime avvisaglie della seconda, quella dei cosiddetti Girati, che sarebbe esplosa con tutta la sua violenza solo pochi mesi dopo. Nuove tensioni e nuovo sangue versato tra altri contraenti tra Secondigliano e San Pietro. Forse Mancini era lontano da quei contesti e chi decise di ucciderlo potrebbe aver approfittato proprio di quel contesto, di quel marasma investigativo, di quella confusione che avrebbe, come ha fatto, decontestualizzare l’omicidio.
Se così fosse potrebbe essere stata una decisione ragionata quella di realizzare il delitto a poche ore da quello di Modestino Bosco. Si sarebbe potuto pensare a un botta e risposta e le indagini sarebbero andate verso le più varie direzioni. Che l’omicidio del trentaseienne del rione Monterosa e l’agguato mortale a Secondigliano potessero essere collegati lo si pensò da subito. Ma come dare torto agli investigatori che ipotizzarono collegamenti? All’epoca i morti ammazzati erano quasi come anelli di una pesante catena di morte che stringeva l’intera cintura di periferia e hinterland nord. Tutti collegati. Forse.
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