Mattarella rinvia la crisi alle Camere: mercoledì il giorno decisivo per il Governo

I collaboratori del premier Draghi però confermano: «la decisione è presa»

Parlamentarizzare la crisi. Come tentativo estremo per ricucire uno strappo che, a fine giornata, sembra impossibile da ricomporre. Perché il paese è in difficoltà ed è il momento, per tutti, della responsabilità. E delle scelte ponderate. Sergio Mattarella non accetta le dimissioni di Mario Draghi e lo rinvia alle Camere, nella «sede propria», per affrontare una crisi deflagrata con il non voto della fiducia del Movimento 5 Stelle, ma che covava da tempo sotto le ceneri.

Una situazione complessa che sembra solo rinviare di qualche giorno le dimissioni «irrevocabili» del presidente del Consiglio Ma «la decisione è presa» dicono i collaboratori del premier, che mercoledì si presenterà in Parlamento per spiegare le «profonde ragioni» che hanno portato a una scelta che, ora che il dado è tratto, i partiti chiedono a gran voce di rivedere. Prima c’è da fare il viaggio in Algeria.

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Dove il premier non si può presentare dimissionario perché, uno dei ragionamenti del capo dello Stato per rinviare il «giorno della verità» alla prossima settimana, «un amministratore delegato senza deleghe non può firmare contratti». Ci sarà quindi il vertice intergovernativo, che è confermato ma potrebbe essere condensato in una sola giornata, poi ci sarà il definitivo showdown, scommettono tutti a Palazzo Chigi.

Dopo le comunicazioni in Parlamento, il presidente del Consiglio dovrebbe annunciare di voler salire nuoivamente al Quirinale ped dimettersi, bloccando così il voto parlamentare sul suo intervento. Poi, spetterà al Quirinale valutare se conferire un nuovo incarico o, scenario che ogni ora che passa sembra più concreto, secondo quanto si registra sempre in ambienti parlamentari, sciogliere le Camere e andare a elezioni anticipate. Il presidente della Repubblica riceve una prima volta al Quirinale il presidente del Consiglio mentre ancora è in corso la seconda chiama al Senato.

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Basta con i distinguo, basta con i ricatti

Un colloquio teso, a tratti anche ruvido, si racconta in ambienti parlamentari. Draghi arriva al Colle con le dimissioni in tasca. Basta con i distinguo, basta con i ricatti, con il rimanere ostaggio di desiderata inevitabilmente inconciliabili di una maggioranza di unità nazionale che, con l’avvicinarsi della scadenza della legislatura, tornano ad affacciarsi con prepotenza. Il premier rientra a Palazzo Chigi prendendosi ancora un tempo per riflettere ma al Consiglio dei ministri, convocato a borse chiuse, dice in modo inequivocabile che la sua esperienza a capo del governo è arrivata al capolinea.

Un consiglio dei ministri rapido, dove Draghi prende la parola solo per leggere la dichiarazione che viene subito dopo diffusa alla stampa. Il patto di fiducia è venuto meno, gela i ministri, non si può più continuare. Il tempo di ricevere un applauso e il premier lascia la sala della riunione, mentre parte un battibecco tra il dem Andrea Orlando e il ‘tecnico’ Cingolani.

Draghi sale di nuovo al Colle, questa volta consegnando nelle mani del capo dello Stato le sue dimissioni. Che Mattarella respinge, anche nella speranza che alcuni giorni di ulteriore riflessione, anche da parte dei partiti, possa portare a un esito diverso che eviti la fine della legislatura.

Una «cesura» chiara, e poi un Draghi bis, peraltro, era uno dei suggerimenti lanciati dal leader Iv Matteo Renzi, che aveva richiamato in Aula alla responsabilità non solo i partiti, ma anche il premier. E dai Dem, per primi, arriva la richiesta di lavorare perché «si ricrei una maggioranza» e il governo, con Draghi a capo, possa ripartire. Lo stesso auspicio che fa Forza Italia che continua a sostenere la possibilità di un governo anche senza il Movimento, su cui, anche nella lettura della Lega, ricade tutta la responsabilità della crisi d’estate.

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