Super Sud, un tuffo nella storia: i giornali giacobini, il “Monitore napolitano” di Eleonora Pimentel Fonseca

Nel 1797 arrivò “Il Giornale” che con la Repubblica partenopea divenne politico, aggiungendo alla testata originaria l’aggettivo di “letterario”, e che, insieme al “Monitore napoletano” di Eleonora Pimentel Fonseca, fu il giornale più diffuso di quegli anni. Così cominciamo il nostro viaggio fra i giornali partenopei dell’epoca proprio dai 35 numeri del bisettimanale della portoghese.

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Costei, cresciuta a Roma, si era trasferita a Napoli per seguire il marito, ufficiale dell’esercito borbonico, e qui aveva cominciato ad interessarsi di problemi sociali, economici e civili: la nobildonna fu appunto l’anima del “Monitore napolitano”, stampato presso il tipografo Gennaro Ciaccio, che fu certamente il giornale più rappresentativo di quella che, nonostante la sua brevità (appena 5 mesi), fu la più significativa fra le repubbliche giacobine d’Italia, cioè la Repubblica partenopea. Poi, il 20 agosto 1799, la Pimentel finì sul patibolo.

Nonostante le critiche, mai al di sopra delle righe, vedi le polemiche della Pimentel per la legge sui banchi, il Monitore fu, sostanzialmente, un giornale filogovernativo. Anzi qualcuno, vedi il Giuseppe Maria Galanti nelle “Memorie storiche del mio tempo”, scrisse che «Dal nuovo governo si sono disposte due gazzette: il Monitore che si è dato ad Eleonora Fonseca Pimentel a ciò ne ritrasse l’emolumento della vendita: un altro foglio sotto nome di “Corriere di Napoli e di Sicilia” si è affidato ad un francese per nome Marcilly, che l’esegue in doppio linguaggio francese ed italiano. A costui il governo ha anticipato ducati 2mila per il travaglio di due mesi, oltre il beneficio della vendita».

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Sicché la maggior parte dello spazio fu dedicato alla pubblicazione di decreti e proclami del Governo provvisorio, ma anche di rappresentanti francesi. Poca o nulla la cronaca cittadina, comunque, limitata sempre a feste e cerimonie ufficiali; approssimative, superficiali ed imprecise le notizie provenienti dall’estero; molte, di contro, le notizie sulla realtà delle province, anche se spesso erano frutto di informazioni indeterminate e inesatte, una sorta di gossip ante litteram, trasudante un “disperato ottimismo” che, però, negli ultimi numeri si trasformò – come scrisse Croce ne “La rivoluzione napoletana” – in una “trista cronaca dell’agonia della Repubblica”.

Pimentel Fonseca, antesignana di Umberto Bossi?

Ma il “Monitore” fu un giornale di notevole richiamo, soprattutto in conseguenza dell’attenzione dei lettori nei riguardi degli “articoli di fondo” e delle proposte che la Pimentel avanzava alle autorità costituite, ai patrioti ed allo stesso “popolino”, nella speranza di preservare l’unità del movimento patriottico, di fargli conquistare sempre maggiore spazio e consistenza e di diffondere i nuovi princìpi fra i cittadini e le classi più umili della città e delle campagne e di cancellarne le ostilità nei confronti della Repubblica.

Nonostante, però, i reiterati tentativi in tal senso e l’importanza data ai vari episodi di conversione possano far pensare il contrario, la Pimentel non fu mai particolarmente ottimista sull’esito della sua battaglia.

Tant’è che, il 9 febbraio del 1799, nel terzo numero ebbe a scrivere che «plebe e non popolo è da chiamare questa parte della nazione, fintanto che una migliore istruzione non l’innalzi alla vera dignità di popolo» ed ebbe a sostenere, in anticipo di oltre 150 anni sul “senatur” Umberto Bossi, la proposta di parlare e scrivere per il popolo nel suo dialetto nativo e di accettare l’idea dell’Istituto Nazionale di fare in modo che «coloro i quali con teatro portatile di burattini van divertendo il minuto popolo per le piazze, faccian anche da questi trattar soggetti democratici».

Infine si fece promotrice dell’iniziativa di “missioni civiche” da affidare ai «nostri non men dotti che civici e zelanti ecclesiastici». Tra l’altro, pur non essendo lei particolarmente devota, al punto che di religione il “Monitore” s’interessava solo per i suoi riflessi e le sue conseguenze sull’anima popolare, la Pimentel non si fece alcuno scrupolo nell’accusare, nel numero 26 del 9 maggio, le autorità costituite di non aver partecipato al miracolo di San Gennaro, poiché «non si è tratto di quel momento tutto il vantaggio che se ne poteva trarre».

La sua proposta di pubblicare “Gazzette” scritte in dialetto fu accolta e realizzata da un prete teramano, Michelangelo Ciccone, e da un frate, Giuseppe Belloni, che di lì a qualche mese, insieme alla Pimentel, avrebbero chiuso i propri giorni sui patiboli borbonici. I due esponenti del clero diedero vita infatti al periodico «La Reprubbeca spiegata co’ lo santo Evangelio», stampato «a Napule, a la Stamperia nazionale l’anno I della Reprubecca noste, pe’ grazia de Dio, de li guappune de Franza e per li prodizze de li Patrioti che pozzano sta buone».

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Un periodico di cui sono arrivati soltanto sette numeri, per altro non datati, e del quale basta il titolo per avere consapevolezza e cognizione di quali fossero le sue posizioni politiche: chiaramente repubblicane e avverse alla monarchia borbonica.

Con il “Corriere di Napoli e della Sicilia”, nasce la “terza pagina”

Come abbiamo accennato prima, l’altro giornale con un discreto seguito, durante il periodo giacobino a Napoli, fu quello la cui fondazione, come quella del “Monitore”, il Galanti attribuisce al Governo repubblicano: parliamo del “Corriere di Napoli e della Sicilia” che Croce, nella già citata opera “La Rivoluzione napoletana”, piazza al secondo gradino della graduatoria per importanza dei contenuti che erano costituiti da un notiziario decisamente cospicuo di informazioni, da opinioni che oggi definiremmo articoli di fondo e dal primo esperimento di “terza pagina”.

In pratica, il “Corriere” è il giornale che, per primo, lascia intravedere le novità che, di lì a poco, avrebbero rivoluzionato il mondo del giornalismo: innovazioni che, approfondite, ampliate e sistematizzate, continuiamo ad incontrare quotidianamente sui giornali di oggi. Bilingue, era stampato dalla Stamperia Nazionale e la sua originalità, rispetto agli altri, era rappresentata dal fatto che si proponeva d’informare ogni cittadino su «l’opinione e le operazioni degli uomini che lo rappresentano», sperando, così, di stimolarli «al bene quando lo fanno» e sferzandoli «con fermezza quando se ne dipartono».

E, per tener fede a questi propositi, sulle sue pagine era facile imbattersi negli atti di tutti gli organi di governo, al fine di rendere edotti i cittadini «in qual maniera i funzionari e gli agenti incaricati dell’esecuzione si conformano a quanto loro è prescritto».

A «…formare lo spirito pubblico» ci pensa il “Giornale Estemporaneo”

Altro giornale di discreto successo, in questo periodo, fu il “Giornale Estemporaneo”, settimanale stampato e distribuito dallo stesso stampatore del “Monitore” (per una ragione o per l’altra il giornale della Pimentel sovrasta l’intero panorama giornalistico della Repubblica napoletana) Gennaro Ciaccio: il “Giornale Estemporaneo” si presentò annunciando, già nel primo numero del 31 marzo 1799, di essere «più diretto a formare lo spirito pubblico che a dire notizie insignificanti».

Non si sa chi ne siano stati i compilatori ma è certo, però, che fossero personaggi vicino al governo del quale esaltavano tutte le iniziative, gli atti e i provvedimenti, compresi quelli come la legge sui banchi che non aveva incontrato i favori della Pimentel Fonseca.

Il “Veditore repubblicano”, un giornale poco capito dalla gente

Giornale decisamente di élite, invece, era il “Veditore repubblicano”, compilato dal calabrese Gregorio Mattei e dal ragusano Pietro Natale: usciva ogni dieci giorni ma circa la sua stamperia niente è dato sapere dal momento che non veniva indicata. Esso si annunciava sostenendo di voler fare «tutto ciò che potesse conferire a rassodar la Libertà, a formare i pubblici costumi»: di certo, però, in nessuno dei quattro numeri arrivati fino a noi riuscì a centrare alcuno degli obiettivi prefissati, dal momento che erano pochissimi quelli in grado di comprenderne il linguaggio.

La cosa, però, non sembrava preoccupare più di tanto i suoi redattori, visto che il loro obiettivo non era quello di istruire gli uomini ma di vedere come si debbano istruire. E, proprio in forza di questa sua caratteristica elitaria, non riuscì mai a penetrare la realtà napoletana né a fidelizzare fasce di lettori di un certo rilievo in quantità apprezzabili.

Infine “Il Vero repubblicano”, stampato presso la tipografia di Vincenzo Orsini, che nel programma sosteneva di voler pubblicare «letteralmente tutte le leggi» con «li schiarimenti delle medesime», nonché «le notizie interne ed esterne», «i nuovi ed ultimi libri e scoperte» «e una istruzione sulla morale e sulla politica in stile chiarissimo e adattato alla intelligenza anche della moltitudine». Diede, però, sempre più spazio alle notizie che non alle opinioni.

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