La sua vita cambiò radicalmente dopo l’incontro con Carmine Crocco
Ninco Nanco, al secolo Giuseppe Nicola Summa, è una delle figure più emblematiche del brigantaggio meridionale dell’Italia post-unitaria. La sua storia, fatta di miseria, riscatto e sangue, si è intrecciata con quella del Sud e delle sue contraddizioni. Ripercorriamo la vita di Ninco Nanco per comprendere come la sua vicenda personale rifletta un’epoca di forte disagio sociale e lotta.
Ninco Nanco, giovinezza e primissime esperienze
Ninco Nanco nacque il 12 aprile 1833 ad Avigliano, in Basilicata, in una famiglia segnata da miseria e precedenti penali: alcuni zii erano già coinvolti in attività criminali. Da ragazzo lavorò come servitore, poi come custode di vigne, e intorno ai 18 anni si sposò con una donna di nome Caterina Ferrara. Il matrimonio durò poco, ma già allora Summa si segnalava per comportamenti violenti.
Un episodio decisivo accadde quando fu ferito gravemente da un’aggressione: anziché rivolgersi alle autorità, decise di vendicarsi, uccidendo uno dei suoi aggressori con un’ascia. Per questo fu arrestato e condannato a dieci anni di carcere sull’isola di Ponza. Nel 1860 riuscì a fuggire e cercò di unirsi all’esercito garibaldino e poi alla Guardia Nazionale, ma venne respinto. Senza prospettive e proprietà, si ritrovò costretto al brigantaggio.
Ascesa come brigante: ferocia e ribellione
Il 7 gennaio 1861 ci fu l’incontro fatale (o fatidico) con Carmine Crocco, il capo più noto del brigantaggio meridionale: da quel momento Ninco Nanco divenne uno dei suoi luogotenenti più fidati.
Con la sua banda di circa 50 uomini, operò nella zona del Vulture (in Basilicata) estendendo le sue azioni anche verso la Capitanata e l’Irpinia. I suoi bersagli erano spesso grandi proprietari terrieri, funzionari statali e soldati: rapine, sequestri, violenze e omicidi erano all’ordine del giorno.
La sua fama divenne celebre, e non per motivi rassicuranti: secondo le cronache, Ninco Nanco si rese responsabile di atti di crudeltà brutale, tra cui l’uccisione di ufficiali e militari, con torture raccontate nei dettagli che avrebbero terrorizzato la popolazione.
Eppure, dalla narrazione popolare, soprattutto nel contesto del brigantaggio del Sud Italia, la sua figura tende ad assumere anche connotazioni eroiche: per molti, Ninco Nanco rappresentava la resistenza di un Sud oppresso contro l’invasione piemontese e le ingiustizie sociali.
Cattura e morte, e l’eredità nella memoria
All’inizio del 1864 l’attività di Ninco Nanco cominciò a indebolirsi, anche a causa del tradimento di un altro brigante, Giuseppe Caruso, che collaborò con il governo. Il 13 marzo 1864, mentre si trovava in un casolare nella località di Castel Lagopesole, fu sorpreso dai reparti governativi: dopo uno scontro, Ninco Nanco e alcuni suoi uomini — fra cui un fratello, vennero catturati e uccisi.
Il suo corpo fu portato ad Avigliano e appeso come monito: un atto simbolico per spaventare la popolazione e scoraggiare ulteriori rivolte. Nonostante la sua fine cruenta, la sua storia non scomparve: nei decenni a venire divenne oggetto di ballate popolari, racconti e reinterpretazioni culturali. In tempi moderni, artisti e scrittori hanno contribuito a ridare voce alla sua vicenda, spesso in chiave di rivendicazione del Sud e delle sue ferite storiche. Un esempio è la canzone intitolata «Ninco Nanco» del musicista Eugenio Bennato, che lo celebra come simbolo di ribellione e memoria popolare.




