Cambiare la Costituzione si può, anzi si deve

Sulla scia del presidenzialismo di Calamandrei ed Almirante

Ogni qualvolta si torna a parlare di riforme costituzionali in direzione di qualche forma di presidenzialismo, da alcuni settori della politica, specie a sinistra, si alzano alti lai perché, si dice, non bisogna stravolgere la Costituzione più bella del mondo.

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La qualifica non le è stata attribuita a seguito di un concorso di bellezza internazionale, di cui non si ha notizia alcuna in nessuna parte del mondo, ma da un comico di fama, candidato al Nobel per la letteratura (pur non potendo vantare alcuna produzione letteraria) che si è esibito in una lettura televisiva appassionatamente lirica della nostra Carta costituzionale, quasi fosse stata scritta in endecasillabi sciolti da qualche grande poeta nazionale.

Parecchi costituzionalisti di mestiere, professoroni che si esercitano quotidianamente sui 139 articoli e le 18 disposizioni transitorie della Costituzione, lasciano trasparire un senso di gelosia e di disappunto di fronte a politici sprovveduti ed elettori comuni del tutto incompetenti in materia.

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Naturalmente, dall’alto della loro dottrina, non riescono ad avere una comune visione e delle soluzioni condivise che possano concorrere a rendere più efficienti le nostre istituzioni.

L’assurda dicotomia

Pertanto, di fronte all’intenzione del governo a guida Meloni di introdurre qualche forma di presidenzialismo, non ancora chiara e non ancora tradotta in testo normativo da sottoporre al voto delle Camere, il professore Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Corte Costituzionale, si lascia andare a considerazioni apocalittiche in un’intervista sulle pagine di Repubblica: «Il presidenzialismo, fondato sulla spaccatura del corpo elettorale in due fronti avversi, sembra fatto apposta per esaltare l’aspetto distruttivo. Una riforma costituzionale in questa direzione potrebbe alimentare un humus pericoloso».

Ma c’è di più, andando oltre le considerazioni giuridiche, lo inquieta il «tratto culturale di questa fase politica… L’enfasi sulla parola nazione, l’uso martellante del termine italiani al posto di cittadini, l’obbligo della memoria condivisa».

Sembra di capire, quindi, che i fronti contrapposti non vadano bene per eleggere il Presidente della Repubblica o il Presidente del Consiglio perché alimenterebbero l’aspetto distruttivo della società, ma siano accettabilissimi laddove si tratti di dividere gli italiani (fascisti?) dai cittadini (democratici?). Sembra un modo elegante di dire che si debba rimanere dentro un’assurda dicotomia tra cultori di memorie contrapposte, in una perenne guerra civile che mai potrà trovare un punto di pacificazione e di sintesi. Per quanto tempo ancora dovremo vivere nell’Eterno 25 Aprile, il giorno della divisione?

Con molta meno eleganza, Enrico Grazzini, su MicroMega, si lascia andare a considerazioni forti, quasi sguaiate: «La populista e trasformista Meloni vuole scassare la Costituzione italiana per essere eletta direttamente dal popolo, saltare il Parlamento, i partiti e comandare l’Italia. La Eva Peron italiana ha il bisogno assoluto dei pieni poteri…».

Il rafforzamento della sovranità popolare

Qui siamo di fronte ai toni apodittici degni del peggiore scontro elettorale, si inveisce contro l’avversario senza badare a quel che si dice. Senza pensare, ad esempio, che la sovranità popolare è richiamata nel primo articolo della Costituzione e non dovrebbe stupire l’idea di un rafforzamento di tale sovranità affidando al corpo elettorale l’elezione diretta del Presidente della Repubblica o del Presidente del Consiglio.

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Del resto, la coalizione di governo già in campagna elettorale ha promesso una svolta presidenzialista ed anche su questo punto programmatico ha il diritto ed il dovere di rispettare l’impegno preso di fronte ai propri elettori. Con buona pace del professore Gianfranco Pasquino che nega alla Meloni il mandato popolare ma le riconosce (bontà sua) la facoltà di procedere alla riforma della Costituzione.

Grazie al cielo non tutti i costituzionalisti sono pregiudizialmente contrari al progetto del governo di centrodestra e non disdegnano il dialogo, come il professor Sabino Cassese, che, pur non mostrando simpatia per le varie forme di presidenzialismo, non vede il rischio della tanto temuta deriva autoritaria e si pone l’eterno problema della stabilità dei governi suggerendo che il Presidente del Consiglio, ancorché eletto dal Parlamento, debba «avere una durata garantita. Se occorre, può essere revocato, ma soltanto con una sfiducia costruttiva».

Dal nostro punto di vista, una buona base di discussione si può rintracciare nel testo della riforma costituzionale approvata dal parlamento nel 2005, ma che non ha superato il referendum dell’anno successivo.

Ormai l’idea che il capo del governo debba ricevere un esplicito mandato popolare è maggioritaria nel Paese e l’elezione diretta potrebbe costituire il migliore antidoto contro governi ribaltonisti pilotati da poteri estranei alla volontà popolare e che, purtroppo, hanno trovato sponda in alcuni presidenti della Repubblica fautori di governi tecnici posti al riparo del verdetto popolare.

Il sogno di Piero Calamandrei

Il sogno di Piero Calamandrei, che fu l’unico a proporre una repubblica presidenziale durante i lavori dell’Assemblea Costituente, potrebbe avverarsi in questa legislatura. Di lui, appartenente al Partito d’Azione, non può certo dirsi che non fosse un accanito antifascista o che fosse fautore di un regime dittatoriale: «La democrazia, per funzionare, deve avere un Governo stabile – diceva – e ricordava che «in Italia si è veduta sorgere una dittatura non da un regime a tipo presidenziale, ma da un regime a tipo parlamentare, anzi parlamentaristico».

Gli fece eco Giorgio Almirante, erede del fascismo, che, in un’intervista televisiva del 1983, condotta da Enzo Biagi, sintetizzò in modo impareggiabile il progetto presidenziale del Movimento Sociale Italiano: «Per assicurare stabilità politica occorre che il capo del governo non sia tratto fuori dal forcipe della partitocrazia, ma venga nominato direttamente dal presidente della Repubblica. E perché quest’ultimo possa farlo, occorre che a sua volta non sia servo della partitocrazia ma venga eletto direttamente dal popolo. Ecco i lineamenti di una Repubblica presidenziale moderna».

Nuccio Carrara
Già deputato e sottosegretario
alle riforme istituzionali

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