Lo sviluppo resta ostaggio di blocchi ideologici e interessi di parte
A leggere i dati Istat sulla «qualità della vita 2025» da meridionali – visto che il Sud, nonostante i passi in avanti compiuti, è sempre nelle posizioni di coda di tutte le graduatorie dei diversi indicatori – c’è poco da stare allegri. Sul piano nazionale la corsa a ritroso sembra essersi invertita. Se, infatti, si confrontano i dati relativi ai tre anni di governo Meloni con quelli degli anni precedenti, si rileva che – in diversi indicatori di sviluppo del sistema «qualità della vita» – qualcosa, per fortuna in meglio, è cambiato.
Per carità, niente di radicale. Del resto non si recuperano qualche decennio – se non di più – di ritardo e di sprechi in appena tre anni. Qualche luce, però, ha cominciato ad accendersi. Il buio lascia intravedere qualche bagliore e l’Italia ha intrapreso la strada per uscire dallo stallo precedente e a dare segni di vitalità, in particolare – per quanto riguarda questa nota – l’occupazione (arrivata, secondo gli ultimi dati Istat, al livello record del 62,7%, mentre la disoccupazione è scesa al 6%) e il sistema retributivo.
Vero, i salari lordi sono calati, ma quelli netti sono cresciuti grazie ai tagli sul cuneo fiscale, all’accorpamento delle aliquote, ai fringe benefit e alla detassazione dei premi di produttività, che incidono sul netto e non sul lordo.
Ma per questi risultati il merito va riconosciuto a quelle confederazioni sindacali Cisl, Ugl e Cisl Scuola, Uil Scuola Rua, Gilda-Unams, Snals-Confsal e Anief e ad altri sindacati autonomi che hanno detto «no» ai diktat imposti da Landini (con il silenzio-assenso dei leader del campo(santo) Schlein, Conte, Bonelli e Fratoianni), e non hanno aderito alla sua cosiddetta «rivolta sociale» e agli scioperi politici, accettando di firmare i rinnovi di alcuni contratti di lavoro: comparto Funzioni Centrali della P.A., istruzione, ricerca e sanità (quest’ultimo, però, senza neanche la Uil), fermi da anni e non certo in nome dei lavoratori, bensì contro l’esecutivo di centrodestra.
Le «distrazioni» che contano
E magari (perché no?) anche la tacita «distrazione» del Capo dello Stato e presidente del Csm che – stando al «Foglio», rilanciato da «La Verità» – i «dem» si sarebbero ricompattati dietro la Schlein, con la regia di Mattarella. Il che, se fosse vero, non mi stupirebbe affatto, anzi farebbe il paio con il suo costante tacere sulle continue disapplicazioni, da parte dei magistrati, delle leggi del Governo Meloni, peraltro da lui controfirmate a garanzia della loro costituzionalità, senza aver mai provveduto, per nessuna di esse, a sollevare alcuna questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta.
Il che – a mio modestissimo avviso – rappresenta un affronto oltre che per l’esecutivo, anche per lui quale garante che, però, resta silente a guardare senza proferire verbo, come se si trattasse della cosa più naturale del mondo.
Come sottolineato prima, anche il Sud negli ultimi tre anni si è rimesso in moto, per provare a risalire la china, seppure con molta più lentezza e pesantezza. Qui i ritardi accumulati in precedenza pesano ancora di più. Di conseguenza, pur essendo potenzialmente un notevole volano di sviluppo per se stesso e per il Paese, e pur ripartendo, resta tuttora a distanza siderale.
Ancora troppi «no»
Perché i «no» al suo sviluppo, in questo momento, restano ancora tanti. Pensate, per non andare troppo indietro nel tempo, a Schlein e Landini che continuano ad opporsi alla realizzazione di quel Ponte sullo Stretto di Messina – di cui si parla da prima dell’unità d’Italia – per collegare in modo stabile la Sicilia alla penisola italiana e all’Europa continentale, rientrando nel Corridoio Scandinavo-Mediterraneo (Scan-Med) delle reti transeuropee dei trasporti (TEN-T).
Ma non piace a MadamElly e al Pd, a Conte e al M5S, a Landini e alla Cgil (i cui scioperi negli ultimi due anni sono costati all’Italia ben 8 miliardi), e contro il quale hanno portato a protestare 15mila persone, che certo sono tante. Ma poiché ad organizzarla, oltre Pd e Cgil, sono stati altri cinque sindacati, cinque comitati «no ponte», 47 gruppi ambientalisti e 36 associazioni, quel numero – più che un successo – ha la consistenza di un flop. Un flop che – vista la determinazione della maggioranza di governo nel portarlo a conclusione – sarà sventato a dispetto dei «noisti» in servizio permanente effettivo, e che rappresenterebbe l’ennesima dimostrazione che a lorsignori il Sud interessa come al buongustaio «il cavolo a merenda», ovvero per niente.
I «furti» al Sud
Lo dimostra il fatto che, nonostante una legge approvata nel 1950 imponesse allo Stato e alle società a partecipazione pubblica di destinare al Sud il 40% dei propri investimenti ordinari, nella realtà le risorse arrivate al Mezzogiorno, grazie ai governi di centrosinistra, non hanno mai superato lo 0,5% del Pil. E sarebbe, quindi, una penalizzazione in più per l’Italia del tacco.
Ancora una volta, le verrebbero sottratte, con il «no» al Ponte, risorse (13/14 miliardi) per un investimento che già nell’immediato produrrebbe oltre 40mila nuove opportunità occupazionali e la consacrerebbe – grazie ai fondi Pnrr e al Piano Mattei – come volano e centro nevralgico dell’Europa mediterranea. Non sarà – visto che in passato prima il Pd (epoca Pci e Pds) e poi Conte e i 5S ne hanno proposto la realizzazione – che non lo vogliano più: non perché non piaccia, bensì perché non vogliono che lo faccia il governo di centrodestra. Progressisti sì, ma dei tempi della controriforma.




