La rabbia della famiglia: pene troppo favorevoli per collaboratori
Ventotto anni di reclusione agli esecutori materiali, 16 anni agli altri quattro imputati coinvolti: si è concluso così in primo grado il processo per l’omicidio di Antonio Natale, il pusher che si era ribellato al clan ucciso il 4 ottobre del 2021 su ordine del gruppo malavitoso del Parco Verde di Caivano. La corte d’Assise di Napoli ha condannato Emanuele D’Agostino ed Emanuele Ricci a 28 anni, mentre a Domenico Bervicato, Carlo Avventurato, Bruno Avventurato e Gennaro Pacilio, che in parte avrebbero collaborato alle indagini, è stata comminata una pena di 16 anni.
Una condanna, quest’ultima, che ha provocato la reazione della famiglia del giovane. «Proviamo un fortissimo disappunto – dice l’avvocato Maurizio Raggi – si tratta di una pena troppo favorevole rispetto alla loro collaborazione, che è stata limitata: hanno ammesso e confessato solo ciò di cui le forze dell’ordine e magistrati avevano già la prova inoppugnabile».
Secondo il legale, gli imputati «non hanno fatto rinvenire, ad esempio, tutti i proventi della loro attività criminosa, che si possono stimare in circa 2 milioni e mezzo di euro all’anno, frutti di illeciti ricavati dalle piazze di spaccio gestite». La famiglia, tramite il legale, si dice anche «sconcertata» del fatto che a tutti gli imputati siano state riconosciute indiscriminatamente delle attenuanti generiche dichiarate equivalenti rispetto alle aggravanti dei reati di 416 bis cp e articolo 7 legge Antimafia. L’omicidio di un giovane ragazzo di 22 anni non può essere punito in modo così lieve».



