La sorprendente storia di Giuseppe Schiavone, il brigante gentile
Nel cuore del brigantaggio post-unitario, tra le terre di Sant’Agata di Puglia e le asprezze dei boschi del Vulture, si staglia la figura di Giuseppe Schiavone, conosciuto tra la gente del posto come “Sparviero” per la sua rapidità e astuzia. In un’epoca segnata da violenze, soprusi e tensioni sociali, Schiavone si distinse dagli altri briganti per un approccio sorprendentemente umano: evitava crudeltà gratuite, proteggeva chi era indifeso e dimostrava un codice morale raro tra i suoi contemporanei. Questo lo portò a guadagnarsi la fama di brigante gentile, una definizione che racchiude tanto la sua abilità nell’evitare spargimenti di sangue quanto la sua capacità di suscitare rispetto tra nemici e alleati.
La storia di Giuseppe Schiavone, intrisa di passioni, dilemmi morali e momenti di redenzione, non è solo la cronaca di un fuorilegge: è uno specchio della complessità del brigantaggio, delle tensioni politiche del Sud Italia e delle scelte individuali che possono trasformare la leggenda in memoria storica.
Un uomo diviso tra dovere e coscienza
Giuseppe Schiavone nacque in una famiglia di contadini. Nel 1860, prestò servizio militare nell’Esercito delle Due Sicilie. Con l’unità d’Italia e la successiva dissoluzione dell’esercito borbonico, fu richiamato sotto il nuovo regime sabaudo. Rifiutando di combattere per il neonato Stato italiano, fuggì e si rifugiò nel bosco di Calaggio. Qui, incontrò la banda di Carmine Crocco e decise di unirsi alla lotta armata. La sua scelta fu accolta con sgomento dalla famiglia, che collaborò con le autorità, ricevendo in cambio un posto di guardia municipale per il fratello Domenico.
Durante il suo periodo come brigante, Schiavone partecipò a numerose spedizioni sotto il comando di Crocco, contribuendo a consolidare la presenza brigantesca in territori come la Capitanata, l’Irpinia e il Vulture. Nonostante le sue azioni violente, Schiavone si distinse per un comportamento meno brutale rispetto ad altri briganti dell’epoca. In alcuni casi, si oppose a violenze inflitte dai suoi compagni e non partecipò a sequestri e uccisioni indiscriminate.
Il brigante gentile: tra violenza e umanità
Sebbene Schiavone partecipasse a numerose scorribande, come il massacro di 20 soldati della Guardia Nazionale a Orsara di Puglia e l’uccisione di 17 soldati piemontesi presso Francavilla in Sinni, era noto per la sua condotta meno cruenta rispetto ad altri briganti. In alcuni casi, si oppose a violenze inflitte dai suoi compagni e non partecipò a vari sequestri e uccisioni. Questa sua attitudine gli valse la reputazione di “brigante gentile”, un’eccezione in un contesto segnato da brutalità.
La sua figura è spesso descritta come quella di un uomo che, pur essendo coinvolto in atti di brigantaggio, cercava di mantenere un codice morale personale. Questa caratteristica lo rende una figura complessa e affascinante, che sfida le tradizionali rappresentazioni del brigante come mero criminale.
La fine del brigante: tra tradimento e redenzione
Nel novembre 1864, Schiavone fu tradito dalla sua amante, Rosa Giuliani, che lo denunciò alle autorità. Fuggito a Bisaccia, fu catturato e condotto a Melfi, dove fu giudicato e condannato a morte. Prima dell’esecuzione, chiese di vedere per l’ultima volta Filomena Pennacchio, la sua compagna che attendeva un figlio da lui. Concesso l’incontro, si inginocchiò, chiese perdono e la strinse fra le braccia prima di essere fucilato il 28 novembre 1864.
La sua morte segnò la fine di una figura che, pur essendo un brigante, rappresentava una sfumatura di umanità in un periodo segnato dalla violenza e dalla repressione. La sua storia invita a riflettere sulla complessità degli individui coinvolti in fenomeni storici complessi e sulla possibilità di redenzione anche per coloro che sembrano essere lontani da essa.