Acca Larentia: la sofferenza della comunità di destra, ritenuta figlia di un dio minore

Una storia che dovrebbe servire da lezione per una sinistra senza bussola

I fatti accaduti nel ’78 ad Acca Larentia sono la sacralizzazione della sofferenza di una comunità, quella di destra, ritenuta artatamente figlia di un dio minore, la cui umiltà e la lotta impareggiabile che si rese protagonista, per difendere la dignità di una presenza politica e di un credo irredimibile, nel rendere il sacrificio di quei ragazzi momento iconico di una storia comunitaria per dare senso a un credo e ad affermare il «valore» della morte di tre militanti di destra, di cui non ci si può dimenticare.

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In quel mondo la militanza, a cui nessuno voleva riconoscere le ragioni di agibilità politica ed il rispetto umano dovuto, oggi significa collegamento pieno di valori di una tragedia ad una umanità colpita drammaticamente e che deve trasmettersi, come un rito, a generazioni che dovrebbero studiare quegli anni ed imparare che la conquista della legittimazione e della vivibilità di un militante politico di destra passava dal rischio della vita al sacrificio della morte. Questo è il dato certo che non può scordarsi.

Eppure tutti questi tragici episodi fornivano linfa alla tragedia e rendevano il clima efferato, ponendolo in un orizzonte plumbeo, che molti fingevano di non accorgersi, inquadrandoli come occasioni fortuite, frutto solo di opposti estremismi.

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Il corto-circuito

Tuttavia nella vicenda di Acca Larentia si dovette assistere ad un corto-circuito, in cui oltre ai terroristi comunisti, spararono soggetti e agenti dello Stato. Insomma si realizzò una tragedia in cui si rappresentò come l’effettivo contropotere in un sistema consociativo, in cui si univano comunisti e democristiani, veniva rappresentato in quel contesto da chi stava a destra. E come ha scritto lo storico Giorgio Galli, sarebbe addirittura legittimo ipotizzare, in quel contesto, il dubbio che l’agguato fosse stato «commissionato» da elementi esterni al terrorismo politico, per dare credito alla teoria degli opposti estremismi. Ecco questo rappresentò il terribile corto-circuito, su cui dovrebbe imbastirsi un’operazione verità.

Difatti il profilo storico che emerse fu dettato dal fatto che intere fette di apparato (ideologie di sinistra e prassi nell’esercizio di potere) si cementavano tra loro per annichilire chi cercava di coltivare il senso di libertà, di far valere il diritto a partecipare alla vita democratica e alimentare il pensiero critico.

La storia che non passa

Qui si chiude, ma ancora oggi una certa sinistra comunista cerca di resistere sul fronte della storia-che-non-passa e che non conduce alla pacificazione, offuscando strumentalmente il necessario diritto alla verità su fatti che richiedono compiute indagini e che valicassero, una volta per tutte ed in via definitiva, lo scandalo interpretativo, che si trattasse e/o si riducesse, come nel romanzo di Molnar (I ragazzi della via Pal), in una lotta tra due bande di ragazzini.

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Solo in questa maniera si potrà ricavare il significato storico e la valenza valoriale, mutuando Elsa Morante de «La Storia», di un periodo, che ancora la sinistra non è riuscita a metabolizzare. Al punto che sarebbe bene che questa sinistra, oggi, attraversasse l’esperienza romanzata dell’opera della Morante in Useppe e Davide, due dei numerosi protagonisti, si rappresenta nella narrazione come ne «La primavera e l’estate del 1947 vedono Useppe e Bella (che, in seguito alla morte di Nino, era rimasta definitivamente con il piccolo Useppe, sua compagna di giochi e balia) “pazziare” per le vie di Roma, lungo il Tevere, fino a scoprire una radura incontaminata, considerata il loro “rifugio segreto”.

Qui incontrano un adolescente, tale Pietro Scimò, fuggito da un riformatorio. Questo ragazzo sarà il loro unico amico, oltre a Davide Segre, che intanto vive a Roma nella vecchia casa di Santina, ed è costretto a ricorrere alle droghe più diverse per placare i suoi tormenti interiori, dettati in parte dall’odio verso la classe borghese a cui apparteneva, ma anche dal senso di colpa per la morte della sua famiglia (da lui odiata proprio perché emblema della borghesia) e dal rimorso di aver pestato a morte un militare tedesco durante la guerra».

Forse questo epilogo la dovrebbe dire lunga ed in profondità ad una odierna sinistra senza bussola e che ancora oggi non riesce a fare i conti con la propria storia e con le proprie tragiche contraddizioni.

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