Trenta gli imputati, tra parenti, affiliati e fiancheggiatori
Pesanti condanne per 180 anni di carcere complessivi e tre assoluzioni sono state emesse dal gup del tribunale di Napoli Nicoletta Campanaro al termine del processo sulla riorganizzazione dei clan camorristici Bidognetti e Schiavone di Casal di Principe.
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Trenta gli imputati, tra parenti, affiliati e fiancheggiatori che si erano raccolti attorno a Gianluca, Teresa e Katia Bidognetti, figure centrali del processo perché figli del capoclan dei Casalesi Francesco Bidognetti: Gianluca, detenuto ininterrottamente dal 2008, è stato condannato a 12 anni di carcere, quattro anni sono stati inflitti alle due figlie del boss, che già arrestate e condannate in passato, continuavano comunque a percepire lo stipendio dal clan, con i soldi che provenivano dalle estorsioni ai commercianti.
Pene alte anche per esponenti di rilievo del clan come Giovanni Della Corte (13 anni), Nicola Garofalo (12 anni), Kader Sergio e Giosuè Fioretto (11 anni); quattro anni a Vincenzo D’Angelo e Carlo D’Angiolella, rispettivamente marito e compagno di Teresa e Katia Bidognetti. Assolte Emiliana, Francesca Carrino e Annalisa Carrano, tutte strette parenti dei Bidognetti. I reati contestati a vario titolo erano l’associazione camorristica, l’estorsione, la ricettazione, il traffico di droga e altre fattispecie.
La ricostruzione
La sentenza, emessa al termine del rito abbreviato, ha confermato la ricostruzione dell’accusa (sostituto Maurizio Giordano della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli) e quanto emerso dalle indagini dei Carabinieri, secondo cui Gianluca Bidognetti avrebbe preso in mano da qualche anno le redini del clan, impartendo direttive dal carcere di Terni all’esterno mediante telefoni cellulari introdotti illegalmente in cella.
Avrebbe così gestito tramite gli altri imputati, il settore delle estorsioni, arrivando a far ferire a colpi d’arma da fuoco un imprenditore che non voleva pagare, avrebbe poi condotto attività usuraie con la cessione di somme di denaro in favore di imprenditori e cittadini, che, sebbene in condizioni di forte difficoltà economica, si sarebbero visti applicare tassi d’interesse finanche del 240%; avrebbe inoltre avuto la disponibilità di armi per controllare il territorio, gestendo anche il traffico di stupefacenti, prendendo soldi da controllori di piazze di spaccio, che sarebbero stati così autorizzati a vendere la droga, e occupandosi del «caro estinto» legato alle pompe funebri, grazie a patti illeciti risalenti nel tempo.
Gli affari della famiglia Schiavone sarebbero stati curati da Giovanni Della Corte, che avrebbe cercato, con i complici Franco Bianco, Vincenzo Di Caterino e Salvatore De Falco (condannati rispettivamente a 10 anni, 9 anni e quattro mesi e cinque anni) di reperire somme sul territorio tramite estorsioni ai commercianti, fungendo anche da «arbitro» di controversie tra altri affiliati. I referenti delle due storiche famiglie del clan dei Casalesi, Bidognetti e Schiavone – è emerso – si sarebbero incontrati spesso per riorganizzare una «cassa comune», pur mantenendo la loro sostanziale autonomia operativa nei territori di competenza