Dopo 9 anni Giuliano Amato conclude il mandato alla Corte Costituzionale

Ha impersonato la sintesi tra cultura giuridica e politica

Il Presidente della Corte Costituzionale dopo 9 anni cessa di essere componente della Suprema Corte delle Leggi in qualità di Presidente. Nel suo mandato, iniziato in punta di piedi, ha impersonato la sintesi tra cultura giuridica e politica. Le sue raffinatissime elucubrazioni hanno lasciato traccia, ad esempio nella vicenda di delibazione degli ultimi referendum, al punto da porre le condizioni di una mutazione generica della Corte Costituzionale.

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Nella sede dello scrutinio sulla conformità delle leggi rispetto al dettato contenuto nella carta costituzionale il passaggio di Amato è divenuto incisivo nel dare un ruolo orientativo alle decisioni e soprattutto a generare un dibattito che da queste decisioni si è avviato in dottrina ed in giurisprudenza.

Nel suo discorso finale il Presidente uscente ha voluto, in 8 minuti, rendere evidente e comprensibile l’idea che di fronte ad una politica, che manca di classe dirigente, la Corte delle Leggi possa assumere oggi un ruolo sempre più politico, vale a dire quello di fissare, attraverso l’indicazione di coordinate giuridiche nelle sentenze costituzionali, i limiti tesi ad imbrigliare il libero esercizio del potere politico.

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Così se la politica deve prestare ascolto a ciò che accade nella società, nell’universo delle relazioni istituzionali e soprattutto nelle dinamiche umane, la Corte Costituzionale, a detta di Giuliano Amato, dovrebbe fornire risposte a chè la politica eviti il caos delle contrapposizioni interpretative, tra istituzioni nazionali ed europee, nell’alveo della corretta applicazione delle leggi.

Lo Stato di diritto

Ne consegue, secondo questa ultima interpretazione, che la Corte Costituzionale potrebbe e, secondo Amato, dovrebbe assumere una supplementare funzione di ovviare all’incapacità di una classe-dirigente-politica inoperosa, inconsapevole e non sostenuta da adeguata cultura giuridica e di rispetto delle istituzioni, in una funzione di supplenza delle assemblee legislative. Con ciò facendo venire meno lo Stato di diritto, inteso nella sua versione classica, di separazione ed equilibrio tra poteri costituzionali.

E con una frase giustificativa ed alquanto rischiosa Amato evoca la necessità di evitare il caos istituzionale, laddove dagli organi legislativi non arrivano coerenti risposte a ciò che accade nella realtà e, anzi, imputa alla politica in maniera lapidaria la responsabilità che «Da lì arriva il silenzio oppure voci discordi al suo interno che bloccano le decisioni».

Ebbene, in un mondo cambiato e forse pure in peggio, i conflitti tra gli Stati e dentro le loro società, con sistemi politici che trovano difficoltà a rintracciare e coniugare benessere e solidarietà sulla scorta dei «temi valoriali e identitari».

In questa dimensione europea, in fase di necessario ripensamento, diventa sempre più difficile trovare soluzioni condivise, mentre appaiono utili e coerenti le difese rispetto ad un diritto comune europeo, che risulta essere sempre più pervasivo e contraddittorio. Su questo punto Amato ammonisce la politica, con tutti i suoi rappresentanti istituzionali, a chè si eviti che «…ciascuno dei poteri profitti delle difficoltà per fare ciò che gli pare giusto e che tuttavia tocca all’altro, richiamando il rispetto dei limiti da parte di tutti i poteri perché tutti rispondiamo ai nostri cittadini».

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Il corto-circuito

Emerge qui l’evidente corto-circuito, laddove il fine giurista, rimanendo volutamente sul piano generico, richiama il principio secondo cui «lo scettro appartiene al popolo» mirando ad ovviare al caos ponendo limiti alle assemblee costituzionali parlamentari, rappresentative del corpo elettorale. Per cui se spetta alla politica rappresentare, nell’alveo assembleare, gli interessi generali della comunità nazionale, non può essere la suprema Corte delle Leggi a potersi sostituire ad esse sol perché deve assurgere a stadio ulteriore in cui coordinare e mantenere un equilibrio tra legislazione europea e quella nazionale.

Qui si vuole cioè affermare un principio gerarchico in cui diviene discutibile riconoscere surrettiziamente un primato legislativo di accordi e trattati europei di fronte all’autonomia nazionale, che si esprime con l’approvazione di leggi che rispondano ai bisogni dei cittadini di una nazione e non a entità disomogenee che appartengono a paesi differenti. Questo determina e comporta il rischio immanente che la legge europea e gli interessi sovranazionali si possano imporre arbitrariamente ed introdurre condizioni opinabili, calandole dall’alto, sulle teste degli italiani, che non sono solo europei.

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