Giovanni Falcone, il Servitore dello Stato che lo Stato non riuscì a proteggere

Giovanni Falcone ha dato la vita per le istituzioni, ma ne fu scarsamente ricambiato

Ricordare Giovanni Falcone non è agevole, si corre il rischio di cadere nei luoghi comuni e di scadere nella facile retorica evocata dalle circostanze commemorative. Sicuramente Giovanni Falcone rappresentò un punto di svolta tra un vecchio modo di affrontare la mafia (che vedeva alcuni magistrati impegnati individualmente, quasi in solitudine, contro un fenomeno complesso e ramificato) ed un nuovo modo, articolato e coordinato, con un gruppo di magistrati capaci di svolgere un’azione sinergica ed efficace.

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Il cosiddetto pool antimafia fu ideato da Rocco Chinnici, che però non fece in tempo ad organizzarlo perché finì vittima di un attentato mafioso nel 1983. L’idea fu ripresa dal suo successore Antonino Caponnetto, e Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ne furono i protagonisti più noti, finiti anch’essi vittime della mafia.

Il più grande successo di Falcone fu indubbiamente il famoso maxiprocesso che portò alla sbarra centinaia di mafiosi e che, iniziato nell’agosto del 1985 si concluse in Cassazione il 30 gennaio 1992 con la condanna definitiva degli imputati. Fu questa la prima grande, inequivocabile sconfitta nel dopoguerra per Cosa Nostra, che inevitabilmente se l’è appuntata al dito dopo avere inutilmente macchiato di sangue gli anni del processo con chiari fini intimidatori verso i magistrati e le forze dell’ordine. «Credo che ci sarà inevitabilmente una reazione» profetizzò correttamente Falcone.

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La reazione ci fu da lì a qualche mese, nella triste data del 23 maggio e fu particolarmente sanguinaria: quel giorno andarono incontro alla morte Falcone, la moglie e tre agenti di scorta in quella che prese il nome di strage di Capaci.

Il coro di lodi per Giovanni Falcone

Oggi Giovanni Falcone è unanimemente considerato un eroe, ma al coro di lodi seguite alla sua morte hanno avuto la sfrontatezza di unirsi anche coloro che quand’era in vita gli hanno vigliaccamente remato contro.

Secondo una tradizione mafiosa, il mandante dell’omicidio è il primo ad inviare una ghirlanda al funerale della vittima, così come ad ogni ricorrenza scorrono finte lacrime di estimatori postumi. A Giovanni Falcone vengono riconosciuti meriti indiscussi per le sue attività di indagine e per la sua esperienza presso la Sezione Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia, alla cui guida lo volle l’allora ministro Claudio Martelli su suggerimento dello stesso Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

Insediatosi in quell’incarico nel febbraio del 1991, Giovanni Falcone trovò modo non solo di promuovere importanti provvedimenti, poi trasformati in legge, come l’istituzione della Direzione Nazionale Antimafia, ma anche di sottrarsi alle incomprensioni di alcuni colleghi e alle attenzioni della mafia, che covava un forte spirito di vendetta e non dimenticava.

Nell’estate di quello stesso anno, in Calabria, ai funerali del giudice Antonio Scopelliti, anch’egli assassinato per mano mafiosa, Falcone si lasciò sfuggire un’espressione anche questa volta tristemente profetica: «ora il prossimo sarò io».

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Ma, nonostante i suoi meriti e i rischi che correva, gli fu negata la nomina di consigliere istruttore della Procura di Palermo e la guida del pool antimafia dopo Caponnetto, che pure l’aveva suggerito per quel ruolo. Il Consiglio Superiore della Magistratura fece valere il principio di anzianità, e gli preferì il giudice Antonino Meli contraddicendo scelte precedenti basate sul merito professionale. Paolo Borsellino ebbe a dire che tra i votanti vi furono dei Giuda e tra questi vi fu persino un collega del pool passato al CSM.

La fine del pool antimafia e la nomina a Procuratore

Naturalmente, con la nuova guida il pool fu praticamente sciolto riportando l’approvazione della stessa Corte di Cassazione e ponendo fine a quella unitarietà delle indagini che aveva consentito di contrastare efficacemente le cosche mafiose. Ci volle il mancato attentato dell’Addaura, del giugno 1989, per consentire a Falcone di essere nominato Procuratore aggiunto. I maligni pensarono che fosse stato lo stesso Falcone ad inscenare l’attentato.

In un libro di memorie, I miei anni all’antimafia, Gerado Chiaromonte, all’epoca Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, ricorda che «I seguaci di Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità e per rafforzare la sua candidatura a procuratore aggiunto a Palermo».

Era proprio Leoluca Orlando, inossidabile sindaco di Palermo (ora come allora), il principale detrattore, colui che lo accusava di tenere le indagini nei cassetti e che, ancora oggi, pur versando lacrime di coccodrillo, si rifiuta di esprimere parole di pentimento, con la singolare tesi che, da politico, non è tenuto a dimostrare con prove concrete quello che dice (sic!).

Scorrendo gli infiniti sgambetti che hanno ostacolato la carriera di Falcone, si possono ricordare anche la sua mancata elezione al CSM nel 1989 e la mancata elezione a Procuratore nazionale antimafia nel 1991, nonostante la dichiarazione a suo favore dello stesso Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

Giovanni Falcone ha dato la vita per le istituzioni

Dopo la strage di Capaci, Cossiga, non più Presidente, in un’intervista al Corriere della Sera, con la solita schiettezza si tolse qualche sassolino dalle scarpe: «i primi mafiosi stanno al CSM… Sono loro che hanno ammazzato Giovanni Falcone negandogli la DIA e prima sottoponendolo a un interrogatorio».

Persino l’ultima aspirazione, quella di dirigere la sua creatura, la Direzione Nazionale Antimafia, gli fu negata dalla sua morte prematura. Giovanni Falcone ha dato la vita per le istituzioni, ma ne fu scarsamente ricambiato perché, per utilizzare le sue parole: «In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere».

Nuccio Carrara
Già deputato e sottosegretario
alle riforme istituzionali

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