Il pentimento di Garibaldi per la spedizione contro il Sud

La lettera ad Adelaide Cairoli nel 1868

Correva l’anno 1868 quando Garibaldi, disgustato per la condotta del Governo, nei confronti del Sud, diede le dimissioni da Deputato al Parlamento. Questo provocò il rammarico di tutti i patrioti e di Donna Adelaide Cairoli, alla quale Garibaldi diresse questa lettera. Il peggio è che questo comportamento si ripete ancora oggi, ma nessun parlamentare, neanche fra quelli meridionai pensano a dimettersi. Anzi!!!

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La lettera è tratta dal volume Giuseppe Garibaldi, Lettere ad Anita ed altre donne, raccolte da G. E. Curatolo, edito da Formiggini, Roma 1926, pp. 113-116.

Madonna amabilissima,

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Se v’è una voce, che possa pesare sulle mie risoluzioni, dessa è veramente la vostra. E se gli oltraggi commessi dal più immorale dei Governi avessero soltanto colpito il mio povero individuo, io m’inchinerei oggi, umiliato, ai vostri piedi, impareggiabile Madre, e vi direi, pentito: «riabilitatemi nell’antica stima».

Ma… vedere il sacrifizio di tanti generosi, fra cui preziosissima parte del vostro sangue, risultare a pro’ di alcuni traditori e rimanere indifferenti, è troppa debolezza non solo, ma vergogna! E mi vergogno certamente di avere contato, per tanto tempo, nel novero di un’assemblea di uomini destinata in apparenza a fare il bene del paese, ma in realtà condannata a sancire l’ingiustizia, il privilegio e la prostituzioe!

Ciò che a Voi dico, avrei potuto, motivando la mia dimissione, pubblicarlo. Ma, come dire all’Italia, ch’io mi vergogno appartenere ad un Parlamento, dove siedono uomini come Benedetto Cairoli? Quindi mi sono semplicemente dimesso da un mandato divenuto ogni giorno più umiliante.

E credete voi, che per ciò io non sia più con essi?

Tale dubbio, tale diffidenza, da parte della donna che più onoro sulla terra, mi furono veramente dolorosi! E benché affralito materialmente, sento nell’anima di voler seguire i campioni della libertà italiana, anche dove possa giungere una portantina. Qui, o Signora, io sento battere colla stessa veemenza il mio cuore, come nel giorno, in cui sul monte del Pianto dei Romani, i vostri eroici figli faceanmi baluardo del loro corpo prezioso contro il piombo borbonico! E quando giunga l’ora, in cui gl’italiani vogliano lavare le loro macchie, se vivo, spero di trovarvi un posto.

Troppo la stupida pazienza di chi li tollerava. E Voi, donna di alti sensi e d’intelligenza squisita, volgete per un momento il vostro pensiero alle popolazioni liberate dai vostri martiri e dai loro eroici compagni. Chiedete ai cari vostri superstiti delle benedizioni, con cui quelle infelici salutavano ed accoglievano i loro liberatori! Ebbene, esse maledicono oggi coloro, che li sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all’inedia per rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e che li spinge a morire di fame.

Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa cheCorr disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato. E se vogliamo conservare un avanzo di fiducia nella gioventù, chiamata a nuove pugne e che può avere bisogno della nostra esperienza, io consiglio ai miei amici di scuotere la polvere del carbone moderato, con cui ci siamo anneriti e non ostinarsi al consorzio dei rettili, striscianti sempre a nuovi tradimenti. E chi sa, che non si ravvedano gli epuloni governativi, lasciati soli a ravvolgersi nella loro miseria?

Comunque, sempre pronto a gettare il mio rotto individuo nell’arena dell’Unità Nazionale, anche se dovessi ancora insudiciarmi, io non cambio oggi la mia determinazione, dolente di non poter servire. Lunga è la storia delle nefandezze perpetrate dai servi d’una mascherata tirannide, e longanime popolazioni care al mio cuore, perchè buone, infelici, maltrattate ed oppresse; dolentissimo di contrariare l’opinione di Voi, che tanto amo ed onoro. Un caro saluto ai figli dal vostro per la vita.

G. Garibaldi.
Caprera, 7 settembre 1868

Setaro

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