Nasce il governo di alto profilo… politico. Draghi si blinda e sceglie 15 politici su 23 ministri. Malumori in Fi e Lega

di Dario Caselli

Doveva essere un governo di alto profilo, si è trasformato in uno di altro profilo e cioè politico rispetto a quello istituzionale che aveva annunciato il Quirinale. Mario Draghi ieri ha finalmente presentato al presidente della Repubblica la lista dei ministri. In tutto 23 di cui però ben 15 sono politici e soltanto 8 tecnici. Bastano già questi semplici numeri per chiarire che molte delle aspettative, peraltro frutto delle parole del Capo dello Stato, sono rimaste deluse.

Era stato proprio il presidente della Repubblica nell’investire Mario Draghi del ruolo di presidente incarico a parlare di «un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica». E invece il profilo da alto è diventato altro e soprattutto la formula politica è chiaramente identificabile visto che proprio questa sembra essere preponderante.

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Un Esecutivo che recupera ben tre ministri del Berlusconi IV: Carfagna, Gelmini e Brunetta; tre del governo Letta: Giovannini, Franceschini e Orlando; due del governo Conte I: Di Maio e Stefano; e infine ben 9 del Conte II: Di Maio, Lamorgese, Guerini, D’Incà, Bonetti, Franceschini, Patuanelli, Dadone e Speranza. Insomma, un bel minestrone dove tutti sono dentro secondo un preciso bilancino degno del miglior Cencelli. E pure per la spartizione tra i partiti si è deciso un metro ben preciso: 4 ministri al M5S, 3 per Pd, Lega e Fi.

Altro aspetto: è prevalsa una netta continuità in alcuni ruoli chiave come la Difesa, gli Esteri, la Sanità e gli Interni dove i ministri del Conte Bis sono rimasti dove erano. Segno che Draghi su questi dossier cercherà di andare avanti lungo il solco già tracciato dal precedente governo. Un aspetto non secondario, se si pensa soprattutto alle politiche migratoria della ministra Lamorgese oggetto di non poche polemiche da parte della Lega di Matteo Salvini.

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Sergio Mattarella e Mario Draghi

I tecnici vanno ad occupare alcuni ministeri chiave, come quell’Economia dove Draghi ha piazzato un suo fidato come Daniele Franco mentre alla Transizione ecologica Roberto Cingolani. Di peso anche la nomina alla Giustizia con l’ex presidente della Consulta Marta Cartabia. All’Istruzione via l’Azzolina e arrivano Patrizio Bianchi, economista con un passato da consigliere nel Pds a Ferrara e molto amico di Prodi. Insomma, una scelta che di tecnico ha ben poco.

In realtà, la scelta di puntare su una delegazione molto politica e meno tecnica dimostra che in Draghi è prevalso il timore che riducendo lo spazio agli esponenti dei partiti il governo potesse rimanere più esposto agli umori in Parlamento e quindi per questo più debole. Politico che però non è significato il pieno coinvolgimento dei leader visto che questi sono rimasti fuori, probabilmente per evitare di coinvolgere Matteo Salvini nella squadra di governo. Eventualità che avrebbe reso molto più problematico il sostegno da parte della vecchia maggioranza di Conte al governo.

Sono entrati però i numeri due, segno della volontà di blindarsi. E così Andrea Orlando (Pd) al lavoro, Luigi Di Maio (M5S) che vista la reggenza di Vito Crimi come capo politico non riveste ruolo di leader, e poi Giancarlo Giorgetti (Lega) al Ministero dello Sviluppo economico. Discorso più complesso per Forza Italia che si può dire sia uscita pesantemente penalizzata da questo governo.

Non solo il numero due è stato tagliato fuori, Antonio Tajani, ma la composizione della delegazione ministeriale oltre a riguardare tutti ministeri senza portafoglio e quindi di scarso peso, ha coinvolto personalità che avevano in più di un’occasione manifestato di essere in rotta con Silvio Berlusconi. Una su tutta Mara Carfagna che si troverà a guidare il dicastero del Sud.

Altro nome negli ultimi tempi sotto osservazione e che è diventato ministro Renato Brunetta, che a distanza di quasi 13 anni ritorna alla Pubblica Amministrazione. E infine Maria Stella Gelmini alle Autonomie, che adesso dovrà lasciare il posto di capogruppo alla Camera.

Silvio Berlusconi

Scelte che, si racconta, abbiamo fortemente irritato Silvio Berlusconi il quale avrebbe anche contattato Mario Draghi per protestare sull’esclusione di Tajani e anche per lo scarso peso dato alla delegazione di Forza Italia.

E dire che proprio il Cavaliere era stato tra i primi e più forti sponsor del governo Draghi, anche se pubblicamente si dice soddisfatto della «nomina a Ministri della Repubblica di Renato Brunetta, Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, sicuro che si impegneranno con l’abituale dedizione portando un contributo di competenza e di esperienza all’azione dell’intera compagine governativa».

Come detto però la realtà sembra essere diversa. Lo stesso vale per Matteo Salvini che se da un lato assicura «gioco di squadra», dall’altro ammette che «noi siamo stati informati. Dal punto di vista della lingua italiana, coinvolgimento vuol dire trattare sui nomi sui posti sulle deleghe io sono stato informato delle scelte fatte». Insomma, anche per la Lega la delegazione lascia l’amaro in bocca e non tanto per le deleghe (Turismo, Mise e Disabilità) quanto per il fatto che sia Giorgetti, Garavaglia e Stefani non sono parlamentari di stretta osservanza salviniana.

Giorgia Meloni
Giorgia Meloni

E naturalmente questi non avranno potuto non guardare alla parte destra dell’alleanza che ha deciso di rimanere all’opposizione. Giorgia Meloni, infatti, forte della coerenza con cui ha piazzato Fratelli d’Italia lontano dal governo ha commentato la squadra dei ministri: «Le grandi aspettative degli italiani sull’ipotesi di un governo dei ‘migliori’ in risposta all’appello del capo dello Stato, per fare fronte alla drammatica situazione dell’Italia, si infrangono nella fotografia di un Esecutivo di compromesso che rispolvera buona parte dei ministri di Giuseppe Conte. Mi chiedo se i cittadini, gli imprenditori, i lavoratori e tutte le persone in difficoltà si sentano rassicurate dall’immagine che vedono. Sono convinta più che mai che all’Italia serva un’opposizione libera e responsabile».

E inoltre sull’arrivo al ministro del Lavoro del vicesegretario del Pd, Andrea Orlando, spiega: «Come dimostra la casella strategica del ministero del Lavoro affidata al Pd, i nostri timori di un governo ostaggio della sinistra vengono confermati. Sono molto preoccupata per il nostro tessuto produttivo e per i milioni di italiani che rischiano il posto di lavoro».

Insomma, la sensazione nel centrodestra di governo è quella di essere se non caduti in trappola di ritrovarsi in una strada abbastanza stretta e di dover contenere gli entusiasmi iniziali, ricordando proprio quello che aveva detto Giorgia Meloni dopo il primo giro di consultazione e che cioè con la maggioranza numerica nelle mani di Pd-M5S-Leu l’asse del governo e delle decisioni sarebbe stato sempre spostato verso quel fronte.

Parole che alla luce delle nomine dei ministri sembrano pesanti come pietre. Ecco perché adesso la partita si sposta su viceministri e sottosegretari, lì soprattutto Forza Italia e Lega dovranno cercare di ottenere un risarcimento e raddrizzare la situazione. Ma è evidente che se questo è il mattino viene difficile pensare che il buongiorno possa essere meglio, e che forse la scelta di gettarsi in questa avventura governativa potrebbe nascondere più insidie che gioie.

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