La Candelora di Militello Rosmarino: una festa “pagana” nel paese degli avvoltoi, nel giorno di San Biagio

Gli dei si sono ecclissati, ma continuano ad inviare messaggi grazie alla potenza dei loro simboli. «La potenza del simbolo è più grande della potenza degli uomini», diceva Olimpiodoro.

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A Militello Rosmarino il 2 e 3 febbraio si svolgono i festeggiamenti in onore di San Biagio Vescovo e martire nonché Patrono del piccolo comune nebroideo in provincia di Messina.

Il 2 febbraio è anche il giorno della Candelora e la mattina, nella processione dedicata alla Madonna, si portano delle ceste con dei ceri che vengono benedetti durante la messa che si celebra nella chiesetta bizantina del Brignolito, in contrada Santa Maria. Durante l’anno i ceri, dedicati alla Madonna e a San Biagio, verranno accesi per ingraziarseli nei momenti di particolari difficoltà.

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Il pomeriggio, poco prima dell’imbrunire, si porta in processione per le vie del paese un verde ramo di alloro, alto e frondoso, recante l’effigie in argento di San Biagio, ‘a rama di San Vrasi, preceduto da giovani con fiaccole accese e realizzate in maniera rudimentale con mazzi di canne selvatiche: i cannizzoli.

Il corteo si raduna poi nella piazza principale dove si predispone una catasta di cannizzoli, una piramide a forma conica che viene fatta bruciare in un grande e suggestivo falò. Tutto il rito prende il nome di ‘sciara. Ma a Militello questo termine non ha il significato di “lava pietrificata”, che gli viene dato nel catanese, pur derivando, con ogni probabilità, dalla stessa parola latina: flagrare “fiammeggiare”, “ardere”. [1]

La sciara è con ogni probabilità riconducibile alla serie di riti solstiziali invernali che hanno inizio con il falò natalizio, ‘u Zuccu di Natali (il Tronco di Natale), dedicato anticamente alla nascita del dio Sole che, in epoca cristiana, lasciò il posto al Cristo, nuovo Sole della nuova religione.

Il giorno successivo, il 3 febbraio, data della ricorrenza ufficiale, si svolge la processione del Santo Patrono portato a spalla sulla sua enorme vara. In testa alla processione vi è il ramo d’alloro con l’effigie del Santo, portato da uno dei fedeli cui spetta questo compito per trasmissione ereditaria.

Dopo una Corsa (‘a Cusra) realizzata nella parte finale della salita che porta alla piazza principale, il Santo viene fatto fermare ed i fedeli colgono l’occasione per accalcarsi attorno alla vara e chiedere a San Biagio, assiso sul suo trono vescovile in atteggiamento benedicente, una grazia o la semplice benedizione per sé e per i propri cari.

Alcuni presentano delle offerte (oggi preferibilmente in denaro) come voto o per ingraziarselo. Sulla statua del Santo vengono pure strofinati candele e nastri rossi, che poi verranno utilizzati come oggetti sacri. I bambini, sollevati sulle braccia dagli uomini, vengono spinti a toccare o baciare il Santo.

La processione prosegue, poi, lungo il tradizionale percorso ed una seconda Corsa viene effettuata nell’ultimo tratto, prima di rientrare in Chiesa.

Le due Corse sono i momenti più suggestivi della processione: i portatori della vara, si mettono a correre probabilmente per simulare una sorta di “volo magico”.

In origine forse le corse erano tre, una probabilmente si svolgeva nel luogo in cui si narra che la vara sia diventata così pesante da costringere i portatori a fermarsi ed il prete ad invocare il Santo affinché la processione potesse proseguire. Qui si compì il miracolo del Volo della statua di San Biagio che, dopo essere divenuta estremamente pesante, improvvisamente si librò in aria andandosi a posare su di un albero di ulivo che da quel giorno fu chiamato ‘a Livera di San Vrasi (l’Ulivo di San Biagio). [2]

In ricordo dell’evento, sembra che ancora oggi la vara si appesantisca in quel punto e la processione sia costretta a fermarsi per ripartire soltanto dopo assordanti salve sparate per ingraziarsi il Santo che, alla fine, acconsente di ripartire, non prima, però, di un ultimo invito rivoltogli dal sacerdote: «Biagio, cammina!».

Come si è visto, ciò che colpisce nei due giorni di festeggiamenti è la simbologia delle candele, del fuoco e dell’alloro, tutti simboli di luce riconducibili ad antichi culti in onore di divinità soprattutto “solari” o “uraniche” (gr. Úranos, “Cielo”), secondo la terminologia di Bachofen, che le contrapponeva a quelle “lunari” o “telluriche” (lat. Tellus, “TerraW) le cui tracce sono pure molto presenti nell’area dei Nebrodi.

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La stessa Candelora è festa dedicata alla Purificazione della Madonna che, dopo la nascita di Gesù e secondo l’usanza ebraica, trascorse un periodo di isolamento (40 giorni) per “purificarsi”. Ma vi sono tracce riconducibili al culto della Dea Madre, ed in particolare a Giunone, detta anche Dea Februa (Giunone Purificata), febbraio, infatti, era il mese della Purificazione (Februare significa “purificare”).

Anche Dioniso (Bacco per i latini), ad esempio, era particolarmente venerato sui Nebrodi, che prendono il nome, appunto, da nébros, “cerbiatto”. Dioniso è una divinità “lunare” o “tellurica” che, secondo il mito fu sbranato, sotto forma di cerbiatto, dalle sue seguaci impazzite: le Menadi (le Baccanti). Ma resuscitò il terzo giorno. (Ricorda qualcosa?).

Sembra quindi che i festeggiamenti dei primi due giorni di febbraio risentano fortemente di precedenti culti pagani particolarmente radicati per potere essere del tutto soppressi dalla nuova religione.

In particolare, l’alloro come simbolo del Sole e di San Biagio, ci riporta alla memoria il mito di Dafne, la bella ninfa di cui Apollo si era perdutamente invaghito, e che, pur di sottrarsi alle attenzioni del dio, si diede alla fuga e si trasformò in alloro proprio quando stava per essere raggiunta e afferrata.

Da quel momento l’alloro divenne pianta particolarmente gradita ad Apollo ed a lui consacrata. Apollo è dio solare ed è detto anche Febo, che vuol dire “Colui che splende”, il Sole appunto.

La sostanziale coincidenza di Apollo con Helios, il dio Sole, si affermò definitivamente con l’imperatore Aureliano, in epoca tardo imperiale. L’imperatore Giuliano, detto impropriamente l’Apostata, dice espressamente che “Helios è Apollo Musagéte”, “Guida e Capo delle Muse” (Inno al Re Helios, 144, B).

Altri miti confermano lo stretto legame tra Apollo e l’alloro, ad esempio, si narra che egli sia nato ai piedi di un alloro, che abbia reso tale pianta sempre verde, che amasse coltivarla e che si cingesse il capo con corone ricavate dai suoi ramoscelli.

Ma tra i miti apollinei ce n’è uno che potrebbe spiegare, nel nostro caso, come un Santo cristiano si sia potuto appropriare di simboli pagani: il mito di Apollo e Marsia, ai più noto attraverso Dante Alighieri che vi accenna nell’invocazione ad Apollo, nel primo Canto del Paradiso (vv. 19-21).

Marsia era un satiro che osò gareggiare con Apollo e rimase sconfitto nella gara col flauto, soggiacendo così alla dura punizione comminatagli dal dio: fu scorticato vivo (Ovidio, Metamorfosi, Lib. VI, vv. 385-391).

Ebbene, il vescovo di Sebaste subì anch’egli la scorticazione della pelle da parte dei suoi aguzzini e carnefici che, per vincere la sua capacità di resistenza, alla fine lo decapitarono.

A questo punto San Biagio potrebbe non apparire come l’erede di Helios e di Apollo, ma come novello Marsia, che alla fine ha scalzato il suo vincitore appropriandosi dei suoi culti e dei suoi simboli.

Il cristianesimo, infatti, che prima fu perseguitato dai pagani, alla fine risultò vincitore e, laddove non riuscì a reprimere i culti tradizionali, cercò di piegarli agli scopi della nuova dottrina. Comunque, non poté fare a meno di riti e simboli pagani. La festa, diceva Nietzsche, è essenzialmente pagana. E pure l’anima è naturalmente pagana (Cioran).

Infine, piace ricordare che San Biagio fu pure medico e guaritore, in particolare dei malanni della gola. Ma pure Apollo è un guaritore, “il guaritore degli dei”, ed a Roma vi era un tempio dedicato ad Apollo Medicus.

E mentre si svolge la festa tra fanfare, urla ed inni, i grifoni volteggiano lenti nel cielo, giusto per ricordarci che essi sono gli avvoltoi sacri ad Apollo e che “il simbolo spinge le sue radici fino alle più segrete profondità dell’anima” (Bachofen).

Nuccio Carrara
Già deputato e sottosegretario
alle riforme istituzionali


[1] In alcuni dialetti siciliani il gruppo consonantico “fl” si trasforma spesso in “sc”: v. lat. Flamma, fiamma, sciamma; flammare, infiammarsi, sciammari; flumen, fiume sciumi; flos, fiore, sciuri; flatus, fiato, sciatu.;

[2] La scelta dell’albero su cui posarsi potrebbe non essere casuale se si pensa che quell’area è sempre stata povera di ulivi e che la pianta è sacra ad Artemide (Diana per i latini), dea della caccia e sorella di Apollo.

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