In difesa della democrazia è indispensabile evitare che si verifichi
Amici lettori, consentitemi una domanda: vi ha forse stupito che i giornalisti mainstream abbiano atteso 10 anni prima di cominciare a protestare per il mancato rinnovo del contratto di lavoro? Sono convinto di no, ma anche che immaginiate il perché: più che il contratto, li preoccupa il governo Meloni che non gli piace.
Solo che si sono persi l’occasione di stigmatizzare l’eroismo di quei pro-pal che venerdì, lasciando come sempre il corteo dello sciopero generale della Cgil, hanno assaltato e devastato la sede della redazione del quotidiano «La Stampa». Indovinate a chi, sinistra e sindacati, ne hanno attribuito la responsabilità? C’è da chiederlo? Ai fascisti, ovviamente!
Ma è ora di riflettere su qualcosa di più significativo e in ottica futura: una tornata elettorale, quella del 23 e 24 novembre, particolarmente inutile. Ha lasciato tutto uguale a prima, tranne l’astensionismo esploso al 56,48%. E ciò nonostante la larga vittoria dei due candidati di centrosinistra: Fico in Campania e De Caro in Puglia, e di Stefani del centrodestra nel Veneto. Sicché quest’ultimo è rimasto a quota 13 regioni e il primo a quota 6, idem a prima, e, infine, la Valle d’Aosta governata dall’Union Valdôtaine.
E che nulla sia mutato lo conferma anche l’ultima rilevazione Swg delle intenzioni di voto degli italiani, nella settimana precedente il voto – ufficializzata da La7 il giorno stesso dello scrutinio delle regionali – che ha ribadito il primo posto di FdI che, con un +0,2%, raggiunge il 31,6%, massimo storico; poi il Pd al 22,3%, +0,3; e terzo il M5S, 12,5% e -0,3%.
La spallata mancata
Fossi il centrosinistra – il cui capogruppo al Senato, Boccia, per non riconoscere di aver mancato il tanto pubblicizzato «obiettivo spallata», ha addirittura dato i numeri sostenendo che «con questo risultato elettorale il centrosinistra governerà 10 regioni». Se Gesù Cristo moltiplicò «pani e pesci», il piddino ha raddoppiato voti e regioni. Niente di strano! Come al solito ha spacciato una bugia per trasformare, come sempre, la sconfitta in vittoria.
Idem farei se fossi al posto del centrodestra che pure – a differenza dell’opposizione che nel week-end elettorale ha perso 400mila voti – di consensi ne ha guadagnati 250mila, consolidando la propria maggioranza. Ma questo voto lascia un problema: l’astensionismo, che tocca entrambi.
Il vero nodo è il distacco dei cittadini
Per cui, piuttosto che festeggiare per un risultato che lascia tutto inalterato, mi preoccuperei che sempre più elettori rifuggono l’appuntamento con le urne (l’affluenza è calata al 43,52%) e proverei a chiedermi cosa fare per invertire la rotta. Eppure, nel post-voto, a destra come a sinistra, ma anche sulla stampa, non se n’è parlato più di tanto, come se non interessasse a nessuno. Come a dire che «passata la festa, gabbato lo Santo». In attesa della prossima. Ma in un Paese democratico, può definirsi «festa» un evento che mette in discussione la democrazia?
Secondo il collega Tivelli, de «Il Tempo», l’astensione potrebbe rappresentare una sorta di «silenzio assenso verso la Meloni di chi si astiene». Di certo, questa fuga dalle urne è la conferma della scarsissima fiducia degli italiani per la politica e per tali istituzioni, considerate più strutture clientelari e sportelli per la distribuzione di bonus, superbonus e regalie varie che realtà interessate alla crescita socio-economica del Paese e dei cittadini. Come dargli torto.
Del resto, lo hanno promesso anche stavolta. Di più: da un pezzo, ormai, «incontrare» la politica in Italia è sempre più difficile. Sono scomparsi i partiti e quelli che ancora ci sono non hanno più sedi locali per potersi incontrare, confrontarsi e discutere di cosa fare per il territorio, e pensano che lo si possa fare attraverso i social. Ma il peggio è che negli italiani sono venuti meno quello spirito di appartenenenza e quella voglia «di fare per gli altri quello che si vorrebbe che gli altri facessero per loro».
Sicché, convinti che niente cambierà, il giorno del voto «se ne vanno al mare». Senza rendersi conto che, così facendo e lavandosene le mani, si fanno complici del precipitare della situazione. Sicché, se davvero vogliamo, tutti insieme, uscire dal cul-de-sac in cui siamo caduti, e vogliamo essere noi a scrivere il nostro futuro, dobbiamo deciderci a tornare a frequentare i seggi elettorali e votare. Magari cominciando dal referendum per la riforma della Giustizia e la separazione delle carriere dei magistrati.
I partiti e i seminatori di odio
Da parte loro, però, i partiti devono dimostrare di avere a cuore gli interessi del territorio e delle comunità che li abitano e non quelli particolari degli amici e degli amici degli amici. Di più: allontanare i seminatori di odio, confrontarsi su ciò che interessa la gente, fare – e soprattutto realizzare – progetti validi per sviluppo, lavoro, occupazione, fisco e, infine, sanità, liste d’attesa e scuola.
Occorre, cioè, che facciano la loro parte, smettendola di far apparire l’Italia come «la fattoria degli animali» di Orwell, nella quale tutti gli animali (i cittadini) sono uguali, ma c’è sempre qualcuno (i politici) migliore degli altri; propongano i candidati più autorevoli, dando loro il tempo di fare campagna elettorale, senza dare la sensazione che sia frutto del mercato della politica. Altrimenti tutto resterà immutato e non basterà fare l’ennesima «nuova legge elettorale» o prima o poi nei seggi circoleranno più scrutinatori che votanti.




