Non è una «chiacchiera tra amici», ma una sciatteria istituzionale
Nella storia politica italiana, ogni volta che si sfiora il Quirinale l’attenzione sale, i toni si alzano e la tentazione di scorgere manovre occulte diventa irresistibile. Ma in questo caso, al netto delle letture più fantasiose, non c’è nessun «piano», nessun reticolo di poteri forti all’opera. C’è una cosa molto più semplice e, paradossalmente, molto più grave: una sciatteria istituzionale. Una leggerezza politica commessa da Francesco Saverio Garofani, consigliere per la Difesa del Presidente della Repubblica, nonché figura a doppio filo legata al Partito Democratico.
Garofani, dopo un giorno di smentite, stupore e accuse incrociate, ha ammesso di aver pronunciato quelle frasi. Lo ha fatto candidamente, come se una valutazione politica sugli equilibri del Paese potesse essere derubricata a «chiacchiera tra amici» fatta in un cocktail bar, anche quando a parlare non è un normale cittadino, ma un uomo che siede al tavolo del Consiglio supremo di Difesa accanto al Capo dello Stato, alla Presidente del Consiglio e ai vertici militari.
Il nodo della questione non è il Quirinale
Il nodo, allora, non è quello raccontato da una certa narrazione dietro cui alcuni vorrebbero vedere un presunto «attacco al Quirinale». L’attacco non esiste. Nessuno ha messo in discussione l’imparzialità costituzionale di Sergio Mattarella, il cui stile è ampiamente dimostrato dal fatto di aver conferito l’incarico a governi di ogni colore politico – dal Conte gialloverde alla coalizione di centrodestra guidata da Giorgia Meloni – secondo i suoi doveri. Il punto riguarda esclusivamente Garofani, il suo profilo politico e la sua permanenza in un ruolo che richiede un livello di terzietà e discrezione assoluti.
Garofani non è un funzionario qualsiasi. È un ex parlamentare del Partito Democratico, tre legislature alle spalle, figura dunque pienamente collocata in quell’area politica che oggi siede all’opposizione. E lavora in uno dei luoghi più sensibili dello Stato: un ufficio del Quirinale che non può essere sfiorato nemmeno lontanamente dal sospetto che un orientamento personale possa trasformarsi in atto professionale.
Qui nasce la domanda vera, quella che nessuno può eludere: se Garofani ritiene – come ha detto – che un «provvidenziale scossone» sarebbe utile per evitare una nuova vittoria di Giorgia Meloni, quella opinione finisce o no per influenzare, anche solo indirettamente, il suo lavoro? Può un consigliere del Capo dello Stato permettersi di essere percepito come parte di un gioco politico? È questo il problema. Non il Quirinale, non il Presidente, non un forse inesistente e sicuramente non esplicito «disegno contro il governo».
Il danno alla credibilità e la questione delle dimissioni
La differenza tra opinione personale e ruolo istituzionale è chiara: ognuno può avere le proprie idee politiche, ma chi lavora accanto al Presidente della Repubblica deve saperle tenere fuori da qualunque discorso, da qualunque tavolo, da qualunque confidenza privata. Per chi ricopre quelle funzioni, a quei livelli, il privato non esiste: ogni frase pesa, ogni parola diventa potenzialmente pubblica, ogni leggerezza diventa un problema per l’Istituzione.
Garofani questo lo ha dimenticato. E, così facendo, ha creato un danno al Quirinale che nessun «complotto» avrebbe potuto produrre con altrettanta forza. La questione, dunque, è semplice: può Garofani continuare a svolgere il suo ruolo senza che il suo stesso incarico diventi un fattore di tensione politica? Può restare nel posto in cui ogni parola, ogni gesto, ogni valutazione deve essere terza, neutra e impermeabile a qualunque appartenenza? La risposta, oggi, sembra evidente: no.
Non perché abbia tramato, non perché esista un disegno contro il governo – ma perché è venuto meno a quella disciplina istituzionale che caratterizza il Quirinale. E se dovesse rimanere al suo posto, il rischio è che ogni decisione che lo riguarda, ogni atto, ogni documento, venga inevitabilmente letto come il frutto di un orientamento politico, reale o presunto. In altre parole: rischierebbe, direttamente o indirettamente, di «farla pagare» al governo, magari anche senza volerlo. E questo, nel luogo che per definizione deve essere superiore al conflitto politico, non può accadere.
La politica italiana non aveva bisogno di complotti immaginari. Basta una chiacchiera detta nel posto sbagliato, al momento sbagliato, dalla persona sbagliata. E ora la sola strada per tutelare la terzietà del Quirinale è un passo indietro. Non per punire, ma per preservare: l’imparzialità, la credibilità, la distanza dal dibattito politico che fanno della Presidenza della Repubblica il punto più alto e più solido delle istituzioni.




