Le rivolte popolari a Napoli, avvenute tra il Seicento e l’Unità d’Italia, rappresentano uno dei capitoli più significativi della storia meridionale. In esse si condensano le tensioni sociali, economiche e politiche che attraversarono la città in diverse fasi storiche: dal dominio spagnolo alla breve parentesi napoleonica, fino al regno borbonico e alla successiva annessione al Regno d’Italia. Napoli, allora una delle città più popolose d’Europa, fu teatro di continui scontri tra il potere centrale e le classi popolari, esasperate da ingiustizie fiscali, carestie e repressioni.
La rivolta di Masaniello nel 1647 segna l’inizio di questo lungo ciclo di insorgenze e diventa il simbolo per eccellenza della protesta urbana, capace di ispirare successive manifestazioni di dissenso. Le rivolte popolari a Napoli non furono episodi isolati o folkloristici, ma il riflesso di una società profondamente lacerata, in cui le masse cercavano riscatto contro le oppressioni istituzionali, spesso pagando un prezzo altissimo in termini di sangue e repressione.
Rivolte popolari a Napoli: contesto politico ed economico nel Seicento
Nel Seicento, Napoli era una città di straordinaria importanza strategica e demografica: con oltre 300.000 abitanti, era la terza metropoli europea dopo Parigi e Londra. Tuttavia, questa grandezza era gravemente compromessa dalla gestione politica e fiscale del Viceregno spagnolo, che governava in nome della corona asburgica. Il potere era centralizzato nelle mani del viceré e dei suoi funzionari, mentre la nobiltà locale si alleava con il dominio straniero per mantenere i propri privilegi.
Le classi popolari, invece, vivevano in condizioni di estrema precarietà. L’aumento costante delle tasse su beni essenziali come il pane, la frutta e il vino, provocò crescenti ondate di malcontento. A tutto ciò si aggiungeva una crisi economica generalizzata, aggravata da carestie e dalla diffusione della peste. Questo terreno esplosivo fu il preludio naturale alle prime rivolte popolari a Napoli, che esplosero con forza nel 1647.
La rivolta di Masaniello, scaturita da un’imposta sul frutto del pescato e sostenuta dalle fasce più umili della popolazione, rappresentò la reazione diretta a questo sistema fiscale iniquo. La città insorse con violenza, cogliendo di sorpresa l’amministrazione vicereale. In pochi giorni, l’ordine fu rovesciato e Masaniello, un pescivendolo divenuto simbolo della rabbia popolare, fu acclamato come leader. L’evento, benché breve e destinato a concludersi tragicamente con l’assassinio del suo protagonista, costituì la prima grande frattura tra potere e popolo nell’età moderna napoletana.
Le dinamiche emerse durante questa sollevazione, come l’autorganizzazione delle masse, la richiesta di giustizia fiscale e la rivendicazione di dignità sociale, si ripresenteranno con modalità diverse nei secoli successivi, a conferma di come la rivolta di Masaniello sia molto più di un episodio: è un archetipo delle rivolte popolari a Napoli.
La rivolta di Masaniello, 7 luglio 1647
La rivolta di Masaniello scoppiò in un clima di esasperazione collettiva. Il 7 luglio 1647, un’imposta sulla frutta, che colpiva duramente i venditori del popolo minuto, fu la scintilla che innescò la sollevazione. Tommaso Aniello d’Amalfi, detto Masaniello, pescivendolo del quartiere Mercato, si pose alla guida della protesta, diventando in pochi giorni il volto di un’insurrezione spontanea e feroce.
Le masse popolari assaltarono edifici pubblici, bruciarono archivi fiscali, liberarono detenuti. Napoli fu completamente sconvolta. Masaniello, acclamato leader dalla folla, impose ai rappresentanti del governo spagnolo l’abolizione di molte gabelle e pretese riforme istituzionali. Il potere sembrava realmente essere passato, anche solo per qualche giorno, nelle mani del popolo.
Ma il carisma di Masaniello si sgretolò rapidamente. Accusato di squilibrio mentale e sospettato di voler diventare un tiranno, fu assassinato il 16 luglio 1647. La sua morte segnò il rapido ritorno dell’ordine vicereale.
Tuttavia, la rivolta di Masaniello restò incisa nell’immaginario collettivo come il simbolo più potente delle rivolte popolari a Napoli: la prova che il popolo, seppur per breve tempo, poteva sfidare e rovesciare il potere costituito. Nei secoli successivi, Masaniello sarebbe stato evocato da giacobini, patrioti e socialisti come antesignano della lotta popolare.
Dopo la repressione: seconda metà del Seicento e Settecento
La repressione che seguì la rivolta di Masaniello fu brutale. Il vicereame spagnolo rafforzò il controllo militare e riorganizzò la burocrazia per impedire nuove sommosse. Tuttavia, le cause strutturali alla base del malcontento non vennero risolte.
Le rivolte popolari a Napoli, benché meno clamorose nei decenni successivi, continuarono in forme più frammentarie. Periodiche proteste esplosero contro i dazi, l’appropriazione indebita di beni comuni da parte dell’aristocrazia e gli abusi dei funzionari regi. Nel corso del Settecento, con l’arrivo della dinastia borbonica (1734), ci furono tentativi di riforma moderata. Re Carlo di Borbone cercò di modernizzare lo Stato e introdusse alcune misure di giustizia sociale.
Tuttavia, anche in questa fase, il popolo rimase ai margini del potere. Le diseguaglianze continuarono ad alimentare tensioni sotterranee. L’influenza delle idee illuministiche e la Rivoluzione francese accesero nuovamente le speranze. I giacobini napoletani, durante la breve esperienza della Repubblica Partenopea (1799), tentarono di rompere con l’ordine monarchico, ma furono rapidamente sconfitti.
Moti preunitari e brigantaggio nel XIX secolo
Nel corso dell’Ottocento, le rivolte popolari a Napoli e nel resto del Mezzogiorno assunsero nuove forme e significati. Il Regno delle Due Sicilie, sotto i Borbone, si trovò ad affrontare non solo proteste per il caro vita e la pressione fiscale, ma anche il fermento patriottico risorgimentale. Le classi popolari, tuttavia, restarono spesso escluse dai movimenti liberali, più rappresentativi delle élite intellettuali e borghesi.
La repressione dei moti costituzionali del 1820 e del 1848 fu durissima. Napoli, in quegli anni, oscillava tra aperture riformiste e reazioni autoritarie. Quando Garibaldi nel 1860 entrò nella città, la popolazione lo accolse in massa, sperando in un reale miglioramento delle condizioni di vita. Tuttavia, l’annessione al Regno d’Italia non mantenne le promesse di riscatto sociale.
Il malcontento si tramutò ben presto in brigantaggio, una forma di resistenza armata, diffusa soprattutto nelle campagne dell’entroterra. Sebbene spesso descritto come criminalità, il brigantaggio conteneva un forte elemento politico: era una protesta contro lo sfruttamento economico, la leva obbligatoria, e la centralizzazione piemontese. In questo senso, può essere letto come una delle ultime rivolte popolari a Napoli e nel Sud preindustriale.