Cronaca di una resistenza tra povertà, violenza e repressione
Quando parliamo del brigantaggio, stiamo indicando un fenomeno abbastanza complesso e discusso, che ha caratterizzato la storia dell’Unità d’Italia. Si tratta di un movimento che va oltre la semplice criminalità rurale del periodo, in quanto è ben radicato all’interno del Mezzogiorno e nella società spaccata dal periodo. Il Sud Italia, qui, era desideroso di riscatto, di avere finalmente un posto nel mondo, trovando la massima espressione nei briganti che, tra violenza e ribellione, facevano sentire la voce del popolo.
Il contesto sociale del Mezzogiorno post-unitario
Con l’Unità d’Italia nel 1861, il Sud si trovò improvvisamente inglobato in un nuovo Stato che non teneva conto delle profonde differenze economiche, culturali e politiche esistenti tra le regioni. Già in quel contesto le regioni meridionali, annesse a quelle del Nord, non venivano viste di buon occhio. Inoltre, i contadini, abituati a sopravvivere sotto il sistema feudale borbonico, si ritrovarono privati di ogni punto di riferimento. La promessa della terra non si concretizzò mai, e le nuove tasse introdotte dal governo sabaudo aggravarono ulteriormente la miseria.
In questo scenario, molti giovani delusi o senza prospettive si diedero alla macchia, trasformandosi in briganti. Alcuni, come Giuseppe Schiavone, erano ex militari borbonici che videro nell’unificazione una vera e propria occupazione straniera. Altri, come Pizzichicchio, venivano dal sottoproletariato rurale e trovarono nel brigantaggio un modo per sopravvivere e, in alcuni casi, per vendicare torti subiti. Non si trattava solo di banditismo: era una ribellione spontanea, anche se caotica, contro un sistema percepito come ingiusto e distante.
Il brigantaggio come ribellione e come guerra
Sebbene lo Stato italiano parlasse di «delinquenza organizzata», il fenomeno del brigantaggio non era altro che una forma di resistenza armata a ciò che stava accadendo. Non si trattava di un movimento unitario, né di un progetto politico coerente, ma di una miriade di bande locali, guidate da capi carismatici e temuti.
Tra questi spiccava Carmine Crocco, probabilmente il più noto tra i briganti, capace di guidare centinaia di uomini in campagne militari contro l’esercito italiano. Accanto a lui, figure come Ninco Nanco e Pietro Monaco alimentarono il mito del brigante vendicatore, crudele con i ricchi e con le forze dell’ordine, ma generoso con i poveri e i compaesani.
La repressione dello Stato fu durissima: l’invio di oltre centomila soldati nel Mezzogiorno, la promulgazione della legge Pica nel 1863, arresti di massa, fucilazioni, deportazioni. Interi paesi furono messi a ferro e fuoco, come Pontelandolfo e Casalduni, in una delle pagine più nere della storia italiana. Il brigantaggio non fu solo criminalità, ma uno scontro violento tra due modelli di società: uno in costruzione, l’altro che non voleva sparire.
Il confine sottile tra eroi e banditi
Ancora oggi, la figura del brigante oscilla tra leggenda popolare e condanna storica. Molti lo considerano un fuorilegge, un predone, un assassino. Altri lo vedono come un eroe, un ribelle, un martire di una causa più grande. Qualcuno che per il bene comune lotta. E in mezzo a questi giudizi opposti si muove la realtà, fatta di uomini come Crocco e Ninco Nanco, che alternavano atti di ferocia a gesti di giustizia.
O come Schiavone e Pizzichicchio, che vissero e morirono combattendo un potere che sentivano estraneo. Anche Pietro Monaco, spesso dimenticato nelle narrazioni più comuni, incarnò quella zona grigia tra ribellione e violenza privata che rende il brigantaggio un tema ancora attuale.
Il brigantaggio ci costringe a riflettere sul prezzo dell’Unità nazionale, sui limiti della giustizia sociale e sull’eredità di un Sud troppo a lungo ignorato. Non bastano le condanne né le esaltazioni: occorre comprendere le cause profonde di quel fenomeno per riconoscerne il senso storico.