Una vita al servizio dei più poveri
Medico brillante e uomo di profonda fede, Giuseppe Moscati dedicò la sua vita a curare i malati con competenza e amore, soprattutto i più poveri. Fu uno dei primi medici a utilizzare l’insulina per il trattamento del diabete. A riconoscere la sua straordinaria umanità fu anche Papa Giovanni Paolo II, che lo proclamò santo nel 1987, facendone un esempio luminoso di carità cristiana al servizio della scienza.
- La formazione e gli inizi di Giuseppe Moscati
- La carriera medica e le emergenze
- Il lutto e l’eruzione del Vesuvio
- Progressi professionali e riconoscimenti
- La missione medica e la fede
- Il servizio durante la Prima Guerra Mondiale
- L’abbandono della carriera accademica
- Riconoscimenti e impegno sociale
- L’insulina e la diabetologia
- Ricerche scientifiche e viaggi
- La morte e la santificazione
- Il percorso verso la santità
- I miracoli riconosciuti
- L’eredità di Moscati
- Luoghi e istituzioni dedicate
- Diffusione del culto
La formazione e gli inizi di Giuseppe Moscati
Giuseppe Moscati nacque a Benevento, in una famiglia nobile, da Francesco Moscati e Rosa De Luca, ed era il settimo di nove figli. Nel 1889 iniziò i suoi studi al ginnasio «Vittorio Emanuele», conseguendo a soli 17 anni la «licenza liceale d’onore» con voti brillanti. Pochi mesi dopo, cominciò gli studi universitari presso la facoltà di Medicina dell’Ateneo partenopeo.
Con molta probabilità, la decisione di scegliere la professione medica fu in parte influenzata dal fatto che, negli anni dell’adolescenza, si era confrontato in modo diretto e personale con il dramma della sofferenza umana. Nel 1893, infatti, suo fratello Alberto, tenente di artiglieria, fu portato a casa dopo aver subito un grave trauma in seguito a una caduta da cavallo, e lui per anni dedicò le sue premurose cure al fratello.
Il 4 agosto 1903, a soli ventitré anni, Giuseppe Moscati conseguì la laurea in Medicina e Chirurgia all’Università di Napoli con una tesi pionieristica sull’ureogenesi epatica: il lavoro fu giudicato così rigoroso da meritare la stampa, segno precoce di un talento destinato a lasciare il segno.
La carriera medica e le emergenze
Non ebbe nemmeno il tempo di riporre la toga che Giuseppe Moscati si misurò con i concorsi agli Ospedali Riuniti degli Incurabili: superò sia quello per coadiutore straordinario sia, classificandosi secondo, quello per assistente ordinario. Entrambi gli incarichi gli spalancarono le porte di uno dei complessi ospedalieri più prestigiosi del Mezzogiorno e segnarono l’avvio della sua carriera, affrontando così la professione medica con lo slancio di un fuoriclasse.
Il lutto e l’eruzione del Vesuvio
Il primo colpo al suo equilibrio arrivò l’estate seguente, il 2 giugno 1904, quando il fratello Alberto morì, ma quel lutto lo rese ancora più determinato a mettere la propria scienza al servizio della sofferenza umana. La prova del fuoco arrivò presto: nell’aprile 1906 il Vesuvio, in una delle eruzioni più violente del secolo, stava per travolgere un piccolo ospedaletto succursale degli Incurabili a Torre del Greco, a poche centinaia di metri dalla colata di lapilli. Lui, allora coadiutore straordinario della struttura, organizzò un’evacuazione fulminea, riuscendo a svuotare i reparti pochi minuti prima che il tetto crollasse: un intervento che la stampa dell’epoca definì «decisivo per evitare una strage».
Progressi professionali e riconoscimenti
Da quel momento la sua evoluzione professionale fu rapidissima. Nel 1908 vinse il concorso di assistente ordinario per la cattedra di Chimica Fisiologica; si trasferì all’Istituto di Fisiologia dell’ospedale per malattie infettive «Domenico Cotugno», dove inaugurò una linea di ricerche di laboratorio sulle basi biochimiche delle patologie metaboliche.
Nello stesso anno fu nominato socio aggregato della Regia Accademia Medico-Chirurgica, un riconoscimento che, per un medico non ancora trentenne, suonava come un’investitura ufficiale nell’élite scientifica nazionale. Il 1911 fu l’anno della consacrazione, poiché Napoli fu colpita da un’epidemia di colera e l’Ispettorato della Sanità Pubblica chiamò proprio Moscati a redigere un’ampia relazione sui lavori di risanamento urbanistico.
Sempre nel 1911, a soli trentun anni, Giuseppe Moscati vinse il concorso da aiuto ordinario agli Incurabili; ottenne la libera docenza in Chimica Fisiologica su proposta del luminare Antonio Cardarelli e cominciò a tenere due corsi innovativi: «Indagini di laboratorio applicate alla clinica» e «Chimica applicata alla medicina».
Intanto Gaetano Rummo, membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, lo inviò a Vienna per il congresso internazionale di fisiologia: Giuseppe Moscati colse l’occasione per studiare i laboratori mitteleuropei e proseguì il viaggio fino a Budapest. Poliglotta, collaborò in inglese e tedesco alla rivista «La Riforma Medica», firmando articoli di attualità scientifica.
La missione medica e la fede
Nello stesso periodo assunse anche la direzione dell’Istituto di Anatomia Patologica degli Incurabili e, nella sala autoptica, fece affiggere un crocifisso con il versetto di Osea «Ego mors tua, o mors», quasi a suggellare la convinzione che la scienza, se vissuta in profondità, potesse davvero sfidare la morte.
Fra pubblicazioni, didattica e corsia, stava tracciando la rotta di una medicina nuova: rigorosa nei laboratori, tempestiva nelle emergenze, umanissima al letto del malato. La notte del 25 novembre 1914 segnò una nuova svolta nella sua vita, poiché la madre, gravemente malata di diabete, si spense, lasciando un vuoto profondo.
Il servizio durante la Prima Guerra Mondiale
Nello stesso periodo, l’Europa precipitava nel baratro della Prima Guerra Mondiale. Il brillante medico, fedele al senso di dovere che aveva sempre guidato la sua vita, presentò subito domanda per arruolarsi volontario, ma la sua richiesta fu respinta: le autorità ritennero troppo preziosa la sua presenza a Napoli, dove il flusso di soldati feriti in arrivo dal fronte richiedeva medici esperti e instancabili. Fu così che, dal 1915 al 1918, Giuseppe Moscati fu nominato direttore del reparto militare degli Ospedali Riuniti degli Incurabili, dove curate migliaia di militari, tra i 2.500 e i 3.000, secondo i registri ufficiali.
Ma non si limitò alla cura delle ferite visibili, si prese a cuore anche la salute mentale dei soldati; scriveva per loro diari, poesie, parole di conforto che aiutassero a lenire il trauma del conflitto. Fu uno dei primi medici italiani a riconoscere l’importanza dell’aspetto psicologico nella guarigione. L’ospedale, per lui, era una comunità umana prima che una struttura clinica.
L’abbandono della carriera accademica
Nel pieno dell’emergenza bellica, continuò anche la sua attività accademica, tanto che tra il 1916 e il 1917 fu chiamato a sostituire Pasquale Malerba nel corso ufficiale di Chimica Fisiologica e, dal 1917 al 1920, Filippo Bottazzi, considerato il padre della biochimica italiana, nell’insegnamento della Chimica Clinica.
I suoi studenti lo ricordavano come un docente brillante e appassionato, capace di rendere vive le materie più tecniche. Tuttavia, proprio nel 1917, a sorpresa, rinunciò alla carriera universitaria; lasciò la cattedra e l’insegnamento per dedicarsi completamente alla medicina praticata in ospedale. Scelse i malati, non la carriera accademica, e questo fu un atto coerente con la sua visione della medicina come missione e non come ambizione.
Riconoscimenti e impegno sociale
Il riconoscimento al suo valore non tardò ad arrivare: nel 1919 fu nominato primario dell’Ospedale degli Incurabili e il 2 maggio 1921 presentò domanda al Ministero della Pubblica Istruzione per ottenere la libera docenza in Clinica Medica Generale. La commissione, riunita il 6 giugno 1922, lo giudicò così autorevole da esonerarlo da tutte le prove previste, accogliendo la domanda all’unanimità solo sulla base dei titoli e delle pubblicazioni.
All’inizio degli anni ’20 Giuseppe Moscati si dedicò anche allo studio della storia della medicina. Riscoprì e valorizzò figure dimenticate come Giovanni Alfonso Borelli, medico e matematico seicentesco, che definì «il primo padre della medicina nuova», e Domenico Cotugno, a cui si deve la nascita della moderna scuola medica napoletana.
Studi che rivelano quanto Giuseppe Moscati fosse, oltre che clinico e scienziato, un intellettuale curioso e rigoroso. Nel frattempo, il suo impegno quotidiano accanto ai più poveri non si era mai interrotto; infatti, ogni mattina, prima di iniziare il giro delle visite, acquistava latte fresco in grande quantità e lo portava personalmente nei quartieri più disagiati di Napoli. Lo distribuiva ai bambini denutriti, agli anziani soli, alle famiglie senza mezzi. Oltre alle cure mediche, donava denaro per acquistare farmaci, alimenti, beni essenziali. Era un medico e, insieme, un benefattore, un uomo che rifiutava l’idea che la medicina fosse un privilegio per pochi.
L’insulina e la diabetologia
Quando, nel gennaio 1922, fu introdotta in Italia l’insulina per la cura del diabete, fu tra i primissimi a sperimentarla e intuì immediatamente il potenziale rivoluzionario di quel farmaco, facendone uno strumento fondamentale per la cura dei suoi pazienti. Grazie a lui, Napoli divenne uno dei primi centri italiani di trattamento moderno del diabete. A pieno titolo, è oggi considerato un pioniere della diabetologia e dell’endocrinologia clinica.
Ricerche scientifiche e viaggi
La sua attività scientifica non si fermò mai; fu autore di importanti studi sulla determinazione della quantità di sangue nelle nefriti sperimentali mediante microscopia ottica, ricerche che permisero di distinguere tra sindrome nefritica e sindrome nefrosica, e di descrivere in modo innovativo la fisiopatologia renale, e le sue scoperte aprirono nuove strade nella diagnosi e nella comprensione delle malattie renali.
Nel luglio del 1923, nonostante gli impegni incessanti, partecipò al Congresso Internazionale di Fisiologia a Edimburgo e ne approfittò per un lungo viaggio scientifico e spirituale attraverso Roma, Torino, Parigi, Londra e Lourdes, rientrando a Napoli il 10 agosto, arricchito da quell’esperienza che univa scienza e fede, medicina e ricerca, come sempre aveva fatto nella sua vita.
Nel corso degli anni, le sue ricerche furono pubblicate su diverse riviste italiane e internazionali, in particolare quelle sulle reazioni chimiche del glicogeno, fondamentali per la comprensione dei processi metabolici.
La morte e la santificazione
Il 12 aprile 1927, un martedì della Settimana Santa, si alzò presto, partecipò alla Messa nella chiesa di San Giacomo degli Spagnoli e ricevette la Comunione; poi tornò al suo lavoro, dividendosi come sempre tra l’ospedale e lo studio medico. Nel primo pomeriggio, verso le tre, mentre era seduto sulla sua poltrona, si sentì male all’improvviso. Un infarto lo colpì senza lasciargli scampo e morì a soli 46 anni, lasciando sgomenti colleghi, pazienti e l’intera città.
La notizia della sua morte si diffuse rapidamente e tutta Napoli si strinse attorno a lui in un lutto collettivo: al funerale, la partecipazione popolare fu enorme, testimonianza dell’affetto e della gratitudine che la gente nutriva per quel medico così generoso e umile. In lui tanti avevano visto non solo un uomo di scienza, ma un esempio vivente di carità e dedizione.
Il percorso verso la santità
Nel 1930, tre anni dopo la morte, il suo corpo fu traslato dal Cimitero di Poggioreale alla chiesa del Gesù Nuovo, nel cuore del centro storico di Napoli, e i suoi resti furono collocati in un’urna di bronzo realizzata dallo scultore Amedeo Garufi. La data della traslazione, il 16 novembre, divenne il giorno della sua memoria liturgica. Quell’umile medico, che aveva scelto di rinunciare alla carriera accademica per servire i malati, cominciava a essere considerato dalla Chiesa come qualcosa di più di un semplice medico: un esempio di santità laica, incarnata nella professione.
Fu Papa Paolo VI, il 16 novembre 1975, a proclamarlo beato. Due anni dopo, il 16 novembre 1977, i suoi resti furono sistemati definitivamente sotto l’altare della cappella della Visitazione, nella stessa chiesa del Gesù Nuovo. La canonizzazione avvenne il 25 ottobre 1987, a San Pietro, per mano di Giovanni Paolo II. Alla cerimonia era presente anche Giuseppe Montefusco, un giovane che aveva ricevuto quella che la Chiesa riconobbe come la guarigione miracolosa necessaria alla proclamazione della santità.
I miracoli riconosciuti
Per la sua beatificazione, la Chiesa riconobbe due miracoli, entrambi legati a guarigioni inspiegabili. Il primo fu quello di Costantino Nazzaro, un maresciallo della Polizia Penitenziaria, a cui nel 1923 furono diagnosticate una serie di gravi patologie: prima un ascesso alla gamba, poi un’infezione tubercolare, infine il morbo di Addison. Anni dopo, nel 1954, iniziò a pregare Moscati, all’epoca già molto venerato, e una notte lo sognò mentre lo operava. Al risveglio, era guarito.
I medici che lo avevano in cura giudicarono la guarigione «scientificamente inspiegabile». Il secondo caso fu quello del piccolo Raffaele Perrotta, colpito da una meningite meningococcica fulminante tra il 7 e l’8 febbraio 1941. Le speranze di sopravvivenza erano praticamente nulle, ma la madre del bambino, disperata, si rivolse in preghiera a Giuseppe Moscati. La remissione dei sintomi fu immediata e completa. Anche in questo caso, la comunità scientifica non trovò spiegazioni.
Per la canonizzazione, la Chiesa richiedeva un nuovo miracolo, e fu la guarigione di Giuseppe Montefusco, un giovane fabbro di Somma Vesuviana, a rappresentarlo. Colpito da una leucemia mieloblastica acuta, fu ricoverato nel 1978 al Cardarelli di Napoli. I trattamenti non davano risultati e una notte la madre sognò un uomo in camice bianco.
Pochi giorni dopo, in una visita alla chiesa del Gesù Nuovo, riconobbe in una fotografia del beato Moscati il volto del medico visto in sogno. Iniziarono a pregare per lui. Nel giugno 1979, Giuseppe Montefusco guarì completamente, senza bisogno di ulteriori terapie, e tornò al lavoro. La Congregazione per le Cause dei Santi, dopo attenta valutazione, giudicò la guarigione «non spiegabile secondo le conoscenze mediche». Il 27 marzo 1987 fu promulgato ufficialmente il decreto che apriva la strada alla canonizzazione.
L’eredità di Moscati
Il 25 ottobre dello stesso anno, in piazza San Pietro, Giovanni Paolo II proclamò santo Giuseppe Moscati, definendolo durante l’omelia un esempio di come si possa vivere pienamente la santità nella vita quotidiana, nel lavoro, nella scienza e nella cura del prossimo. Montefusco era presente alla cerimonia e donò al Papa un volto di Cristo in ferro battuto, da lui forgiato. Era il gesto simbolico di chi era stato salvato dalla fede e dalla scienza unite in un solo uomo.
Dopo i funerali affollatissimi del 1927, la memoria di Giuseppe Moscati non è mai scemata. Anzi, nell’arco di un secolo è diventata parte viva del tessuto civile e religioso di Napoli e, più in generale, della sanità italiana.
Luoghi e istituzioni dedicate
Fin dal 1930 le sue spoglie riposano nella chiesa del Gesù Nuovo, in un’urna bronzea di Amedeo Garufi. Accanto all’altare è stato allestito un piccolo museo che ricostruisce lo studio medico e custodisce la poltrona sulla quale morì; nel 2023 vi è stato collocato anche un busto in terracotta realizzato dallo scultore Giuseppe Canone.
La cappella è visitata ogni giorno da centinaia di fedeli, e la terza domenica di ogni mese vi si celebra la Messa per i malati. Gruppi parrocchiali da tutta Italia continuano a organizzare viaggi nella «città del medico santo». Solo nell’ultimo anno liturgico, la parrocchia di Taranto a lui intitolata ha guidato un pullman di fedeli in visita al Gesù Nuovo, mentre la diocesi di Boscotrecase ha inserito la tappa a Moscati nel pellegrinaggio giubilare di marzo 2025.
Il modello professionale e umano di Moscati ispira oggi tre grandi presidi ospedalieri del Mezzogiorno: AORN «San Giuseppe Moscati» ad Avellino, con oltre 600 posti letto, hub regionale per trapianti e malattie rare; Ospedale «San Giuseppe Moscati» a Statte-Taranto, polo di riferimento per l’area ionica, in ampliamento dal 2024; Presidio «San G. Moscati» ad Aversa (Caserta), con 288 posti letto, sede di tirocinio universitario per Infermieristica.
A questi si aggiungono reparti, padiglioni e day-hospital intitolati al santo in numerosi altri ospedali italiani.
Diffusione del culto
Oltre alla celebre cappella napoletana, nel 1993 Roma ha consacrato a Moscati la prima chiesa parrocchiale del mondo a Cinecittà Est, disegnata dall’architetto Eugenio Abruzzini. Solo in Italia si contano oggi più di venti parrocchie che portano il suo nome; la più recente si trova a Taranto.
Lo spirito educativo di «medico dei poveri» vive anche nell’Istituto San Giuseppe Moscati di Napoli, attivo dal 1987 come scuola paritaria dell’infanzia e primaria, dove sono passati finora oltre 4.500 alunni. Numerosi licei sanitari e corsi universitari di Bioetica dedicano a Moscati giornate di studio sul rapporto fra etica, ricerca e cura.
Statue, reliquie e icone di Moscati si trovano oggi in cliniche cattoliche di Filadelfia, Buenos Aires, Manila. A Napoli, la rivista bimestrale «Gesù Nuovo» diffonde le testimonianze di grazie ricevute e coordina gruppi di preghiera in quattro continenti.