A furia di tirare la corda Landini l’ha spezzata ed è rimasto solo
A due giorni dell’ennesimo fallimento (adesioni ferme all’8,2% dei dipendenti pubblici) della «mobilitazione generale» di venerdì 12, la numero 8.647 dell’anno in corso, mi sembra giusto chiedersi quanto ci stia costando la «rivolta sociale» del leader (ma lo è ancora? Alla luce di questo flop, direi mica tanto) della Cgil, Maurizio Landini, che ha trasformato l’ex primo sindacato italiano in un partito camuffato e «senza futuro», che sembra avere più interesse per le questioni della politica che per quelle dei lavoratori.
Ha triplicato il numero delle manifestazioni di protesta: si parla di circa 20 al giorno (festività comprese), con oltre 350 militari feriti (di cui ben 242 durante i 2.304 cortei per la guerra, pardon per la pace).
Non sarà che, avendo ormai raggiunto i 64 anni, il leader cigiellino abbia cominciato a carezzare l’idea di andarsene in pensione e, magari (perché no?), puntare a una poltrona politica di primo piano? Ovviamente, visti gli avversari – Schlein e Conte con cui si sta confrontando e i risultati da loro ottenuti – quella di capo della sinistra.
La qual cosa spiegherebbe anche perché, dopo aver sempre taciuto negli anni dei governi tecnici (ben 6 dal 2011 al 2022, alla strepitosa media di uno ogni 20 mesi), a ottobre del 2022 ha ritrovato la voce. Ma solo dopo che il sospirato ritorno alle urne aveva consentito agli italiani di eleggere una premier, Meloni (prima donna nella storia repubblicana), e un governo di loro gradimento, mandando a casa l’esecutivo dei «migliori» di Draghi.
Il risveglio del leader Cgil
Landini, che fino a quel momento sulla poltrona di Corso Italia sembrava essersi appisolato, chissà per quale (in)fausta ragione si è improvvisamente risvegliato, ha messo sotto mira i summenzionati concorrenti e lanciato il guanto di sfida all’esecutivo. Ma non si può certo dire che, da allora in poi, di successi ne abbia raccolti tanti da poter affermare di avere buone possibilità di vincere la partita. Tutt’altro. Non «affascina» più e forse potrebbe essere piuttosto costretto a farsi le valigie, nonostante le sue «prestidigitazioni» siano costate al Paese un occhio della fronte.
Solo negli ultimi due anni, difatti, il leader del «no», «a prescindere», con la sua «rivolta sociale», le mobilitazioni (teoricamente pro lavoro, in realtà antigovernative), bloccando tutto, aggiungendo i venerdì ai weekend dei lavoratori, e le sue elucubrazioni mentali – patrimoniale (servirebbe solo a far scappare i redditi più alti); fiscal drag (il maggior prelievo causato dal combinato disposto fra inflazione e soglie delle aliquote fiscali, che ha consentito, come ha riconosciuto la Bce, il taglio del cuneo fiscale e la riforma dell’Irpef per i redditi bassi); e «diritto di sabotaggio» (subordinare la validità degli accordi contrattuali sottoscritti al voto dei lavoratori, in maniera da provare a «sabotarli» anche dopo averli firmati) – ha contribuito a creare una situazione paradossale.
Ma a quel punto che senso avrebbe il sindacato? Presto detto: far sprecare, com’è successo negli ultimi due anni, ben 8 miliardi allo Stato. Cui è giusto aggiungere le continue aggressioni alle forze dell’ordine, ai giornalisti e ai lavoratori «veri», feriti durante gli incidenti, e il ricorso alla violenza di pro-pal, gruppuscoli, comitati autonomi, antagonisti e alternativi. Tra l’altro gli unici, in questo momento, rimasti a fiancheggiarlo nelle sue liturgie settimanali.
Landini aumenta lo stipendo (il suo)
Lui, nel frattempo, si è aumentato anche lo stipendio, che dal luglio 2024 è arrivato – per un incremento legato al rinnovo del regolamento interno e agli scatti di anzianità – a 7.616 euro lordi mensili, pari a 4.021 netti, più tredicesima e quattordicesima. Il che, ovviamente, ha scatenato polemiche a tutto spiano fra gli iscritti.
Anche perché dallo stesso 2024 Landini e la Cgil hanno cominciato a mettersi di traverso sulla via dei rinnovi di diversi contratti nazionali di lavoro, fra cui Istruzione e Ricerca, Sanità pubblica e Funzioni centrali, ma comunque approvati anche senza la sua «riverita» firma e grazie a quelle altrettanto significative di Cisl, Uil, Ugl e dei sindacati autonomi.
Un aumento, come si nota, abbastanza sostanzioso che però non è bastato per sollecitarlo a un più rigoroso controllo dei conti della società di servizi partecipata dalla Cgil e delle Camere del Lavoro territoriali: Sicilia Srl, che gestiva i servizi Caf del sindacato nell’isola, dichiarata fallita dal tribunale di Catania in conseguenza di un buco di oltre 6 milioni di euro.
Di cui: 3,3 milioni per contributi previdenziali non versati, imposte e tributi non pagati; debiti verso dipendenti senza retribuzioni regolari e spesso in nero per mesi; inoltre 377 mila euro di debiti per tributi diretti allo Stato, per Iva e contributi non versati agli enti locali; e altri tre creditori: l’Istituto case popolari di Enna, un professionista e un dipendente a tempo determinato. Una società, insomma, che è cresciuta, ma anche fallita, senza pagare tasse e trattenendo i contributi dei lavoratori.




