Faticano a intercettare il disagio e non parlano più ai giovani
Negli ultimi dieci anni l’Italia ha attraversato trasformazioni profonde che nessuna forza politica può più permettersi di ignorare. Come riportato dal Sole 24 Ore, il Paese ha perso 1,8 milioni di abitanti, la produttività è stabilmente sotto l’1 per cento e continuiamo a essere tra le nazioni più indebitate al mondo. Questi numeri non descrivono solo un equilibrio economico, ma il modo in cui gli italiani percepiscono il futuro. Raccontano una nazione che invecchia, che fatica a crescere, che guarda al domani con crescente incertezza e in molti casi con sfiducia.
Alla base di tutto questo c’è anche un problema politico. I partiti faticano a intercettare il disagio, non parlano più ai giovani, non costruiscono percorsi di partecipazione credibili e non formano classe dirigente con continuità. Molte volte preferiscono restare chiusi nella logica delle campagne elettorali permanenti, badando più al consenso immediato che alla complessità dei problemi strutturali del Paese. La conseguenza è che ampie fasce della popolazione non si sentono rappresentate e non credono più che il voto sia uno strumento efficace di cambiamento.
Lo abbiamo visto chiaramente in molte consultazioni recenti. In Campania, alle ultime elezioni regionali, circa il 60 per cento degli aventi diritto è rimasto a casa con convinzione, segnale di un distacco profondo tra cittadini e sistema politico. Non si tratta solo di disaffezione, ma della percezione diffusa che la politica non riesca più a produrre visione, responsabilità e progettualità all’altezza delle sfide. Quando un’elezione diventa un rituale svuotato di fiducia, la democrazia stessa si indebolisce.
Una svolta culturale
Di fronte a questo scenario, la domanda è inevitabile. I partiti riusciranno a comprendere che non basta coltivare il proprio spazio elettorale, non basta comunicare a colpi di slogan, non basta inseguire il presente sperando che il futuro si sistemi da solo. Occorre un salto culturale profondo. Occorre riconoscere che un Paese con un declino demografico così marcato, una produttività stagnante e un debito enorme ha bisogno di strategie lunghe, non di rincorse brevi. Ha bisogno di competenze, non di improvvisazione. Ha bisogno di coraggio, non di calcolo.
Il compito dei partiti, se vogliono tornare centrali, è tornare a essere luoghi di pensiero, centri di educazione civica, officine di idee che resistono al tempo. Devono recuperare la capacità di parlare ai cittadini come persone consapevoli, non come segmenti da intercettare. Devono tornare a offrire futuro a chi oggi non lo vede più, soprattutto ai giovani, che hanno bisogno di riconoscersi in comunità politiche che ascoltano e progettano, non che reagiscono e inseguono.
La democrazia non si difende con l’entusiasmo episodico, ma con la costruzione paziente di senso. Si difende con la responsabilità, con la profondità, con la capacità di affrontare i problemi nella loro interezza. È un compito difficile, ma inevitabile. Se la politica vuole tornare a essere un orizzonte di possibilità, deve ritrovare il coraggio della verità, la forza della visione e la consapevolezza che un Paese cresce solo quando chi lo guida ha il coraggio di guardare oltre il proprio tempo.
Solo allora potremo parlare di una politica che non rincorre la società, ma che la accompagna. Non una politica che divide, ma una politica che ricostruisce. Non una politica che si limita a esistere, ma una politica che educa, guida e ispira. Un Paese maturo ha bisogno di questo. E la cultura democratica, per rinascere, ha bisogno che i partiti tornino finalmente all’altezza della loro storia e della sua responsabilità più grande: costruire futuro.




