Dal mare alla salute, passando per lo sport: i diritti diventati un lusso in Italia

Ciò che era di tutti oggi è a pagamento

Viviamo in un Paese dove le frasi fatte sono diventate rifugi comodi, slogan da lanciare sui social o in un talk show, ma spesso vuoti di contenuto reale. «Il mare è di tutti», si dice. Bello, giusto. Ma allora, perché sempre più italiani non possono permettersi nemmeno una giornata in spiaggia, visto il caro ombrellone e il progressivo smantellamento delle spiagge libere?

È una domanda che dovrebbe farci riflettere, soprattutto se allarghiamo lo sguardo oltre il bagnasciuga. Perché, se il mare — un bene naturale — è di tutti, allora anche lo sport, la cultura, l’accesso alla salute e all’informazione dovrebbero esserlo. Invece no. E chi oggi grida allo scandalo spesso dimentica che quel degrado sociale, economico e culturale che stiamo vivendo non nasce oggi, ma viene da lontano.

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Lo sport e la cultura: da diritto a privilegio

Lo sport, ad esempio, un tempo era un collante nazionale, oggi è un pacchetto a pagamento. Ragazzi che non possono vedere le Olimpiadi, famiglie che devono scegliere se pagare l’abbonamento o la spesa settimanale. In una società giusta, lo sport dovrebbe essere parte del bagaglio culturale e motivazionale di ogni bambino. Ma se non puoi nemmeno vederlo in TV, come puoi sognare di diventare un campione?

Eppure, molti di quelli che oggi alzano la voce contro il governo attuale erano al potere quando si è cominciato a svendere la televisione pubblica, a ignorare le esigenze del mondo giovanile, a permettere che le passioni diventassero esclusive.

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La sanità pubblica in crisi

Ancor più grave è lo stato della sanità pubblica: ospedali chiusi, personale sottopagato, liste d’attesa infinite. È un sistema che è stato progressivamente logorato da scelte politiche sbagliate, spesso prese proprio da governi di sinistra che oggi fanno la morale, dimenticando il loro ruolo nell’indebolimento della sanità universale a vantaggio di quella privata.

Le conseguenze? Cittadini costretti a rinunciare alle cure o a indebitarsi per accedere a un diritto che dovrebbe essere garantito. È questo il progresso sociale? Durante la pandemia e subito dopo, lo Stato ha speso cifre colossali — e spesso senza controllo. Ora, grazie ai lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta, emergono responsabilità, sprechi, appalti dubbi, gestione approssimativa. Soldi pubblici finiti in mille rivoli, ma non là dove servivano davvero: sanità, scuola, giovani, sicurezza, territorio.

Politiche sociali e responsabilità politiche

Anche il Reddito di cittadinanza, nato con l’intento di aiutare i più deboli, si è trasformato in molti casi in un sussidio mal gestito, che ha drogato il mercato del lavoro e disincentivato l’occupazione, lasciando fuori proprio chi ne aveva davvero bisogno.

Oggi, il governo Meloni si trova di fronte a una sfida doppia: non solo deve affrontare problemi strutturali che si trascinano da anni, ma deve farlo partendo da un punto di svantaggio, con un debito enorme, servizi in crisi e un’opinione pubblica divisa. Riportare l’Italia a essere competitiva, rispettata, equa è un lavoro duro. Ma almeno, ora, c’è la volontà politica di invertire la rotta.

Invece di sbraitare o fare i moralisti dal divano, sarebbe forse il momento per certi ambienti politici — soprattutto quelli che hanno avuto per anni le leve del potere — di fare un sincero mea culpa. Perché i nodi sono arrivati al pettine, e l’ipocrisia di chi ieri ha taciuto e oggi urla serve solo a distrarre dai veri problemi.

Se il mare è davvero di tutti, allora cominciamo a estendere questa logica anche allo sport, alla salute, alla cultura, al futuro dei nostri figli. Basta frasi fatte. È tempo di responsabilità. E chi oggi lavora per ricostruire merita almeno di non essere ostacolato da chi ha contribuito al crollo.

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