Un teatro che commuove, fa ridere e riflettere
Prima che esistessero le serie tv, i meme e i social, c’era già chi sapeva raccontare l’assurdità della vita con una battuta fulminante o uno sguardo che diceva tutto. Eduardo De Filippo non aveva bisogno di effetti speciali: bastavano una stanza spoglia, pochi personaggi e la realtà nuda e cruda di ogni giorno. Le sue storie parlano ancora oggi, perché i problemi, i sogni e le contraddizioni degli esseri umani non sono mai cambiati.
- Le origini e l’infanzia nel mondo del teatro
- Primi passi e formazione artistica
- Gli inizi come autore e regista
- L’indipendenza artistica e la compagnia De Filippo
- La compagnia stabile e il successo crescente
- Un teatro sempre più universale
- Opere degli anni Trenta e l’approfondimento drammaturgico
- Il dopoguerra e i capolavori universali
- I grandi capolavori del dopoguerra
- L’apogeo del teatro eduardiano
- Gli ultimi grandi lavori
- L’eredità di Eduardo
Le origini e l’infanzia nel mondo del teatro
Figlio naturale della sarta teatrale Luisa De Filippo e del famoso attore e commediografo Eduardo Scarpetta, Eduardo De Filippo nasce il 24 maggio 1900 a Napoli, nel quartiere Chiaia, in un ambiente familiare e teatrale molto complesso. I suoi fratelli Titina e Peppino nascono dalla stessa relazione extraconiugale, mentre Scarpetta era sposato e aveva già avuto tre figli legittimi da Rosa.
Fin da piccolo Eduardo respira teatro, infatti a soli quattro anni appare per la prima volta sul palcoscenico, portato in scena dall’attore Gennaro Della Rossa in occasione dell’operetta «La Geisha» al Teatro Valle di Roma. Negli anni successivi, insieme ai fratelli, cresce artisticamente nella compagnia del fratellastro Vincenzo Scarpetta. Titina già lavora stabilmente nella compagnia agli inizi del 1910, mentre Eduardo De Filippo e Peppino cominciano con piccole apparizioni.
Primi passi e formazione artistica
Nel 1912 la famiglia si trasferisce in via dei Mille e i due fratelli maschi frequentano il Collegio Chierchia ed è proprio qui che inizia anche a scrivere i suoi primi versi: la sua prima poesia è una composizione scherzosa dedicata alla moglie del direttore del collegio.
Dopo un tentativo di cercare fortuna a Roma nel mondo cinematografico, senza successo, torna a Napoli e comincia le sue prime esperienze come attore recitando nella rivista di Rocco Galdieri, nella compagnia di Enrico Altieri e successivamente in altre compagnie minori come la Urciuoli-De Crescenzo e la Compagnia Italiana, dove conosce Totò, con cui stringe una profonda amicizia.
Nel 1914 Eduardo De Filippo entra stabilmente nella compagnia del fratellastro Vincenzo Scarpetta, raggiungendo Titina dove, successivamente, nel 1917 si unisce anche Peppino. Nel 1918 viene chiamato alle armi; dopo un primo congedo, completa il servizio militare nel 1920 nel 2º Reggimento Bersaglieri a Trastevere. Qui inizia a organizzare e recitare piccole rappresentazioni per i soldati, scrivendo e dirigendo le scene e scrivendo la sua prima commedia vera e propria «Farmacia di turno».
Gli inizi come autore e regista
Nel 1922 scrive «Ho fatto il guaio? Riparerò!», che andrà in scena nel 1926 al Teatro dei Fiorentini, col titolo definitivo di «Uomo e galantuomo», una delle sue più comiche opere, già intrisa di temi che diventeranno ricorrenti nel suo teatro: la pazzia, il tradimento, con echi pirandelliani accostabili a «Il berretto a sonagli», pur rimanendo ancorato alla tradizione farsesca di Scarpetta. Eduardo inserisce nella commedia anche un riferimento al «Mala nova» di Libero Bovio, cosa che Bovio non apprezzerà.
Parallelamente, matura esperienze anche come regista, infatti 1921 lavora con i «seratanti» e nel 1922 cura la regia di «Surriento gentile», idillio musicale di Enzo Lucio Murolo, segnando l’inizio della sua lunghissima attività registica.
Nel 1926 scrive la commedia «Requie a l’anema soja…», in seguito intitolata «I morti non fanno paura», nella quale interpreta per la prima volta un personaggio anziano e solo anni dopo spiegherà la sua scelta di «invecchiarsi» in scena per poter interpretare lo stesso ruolo a lungo, senza il rischio che il passare del tempo lo penalizzasse fisicamente.
L’indipendenza artistica e la compagnia De Filippo
Il passo importante avviene nel 1927 quando si avvia verso l’indipendenza artistica creando una cooperativa teatrale, senza produttori o finanziatori esterni, e coinvolgendo i fratelli Peppino e Titina insieme all’amico Michele Galdieri dando vita alla compagnia Galdieri-De Filippo, con Eduardo De Filippo nel ruolo di direttore artistico.
Il debutto avviene con successo il 27 luglio 1927 al Teatro dei Fiorentini di Napoli, con lo spettacolo dal titolo scaramantico «La rivista… che non piacerà»; con i fratelli fonda la «De Filippo – Comica Compagnia Napoletana d’Arte Moderna», proseguendo la sua attività di attore, autore e capocomico. Nel 1928 scrive l’atto unico «Filosoficamente», che ritrae il senso di rassegnazione piccolo-borghese, e il testo «Occhiali neri»: entrambe queste opere però non verranno mai portate in scena.
L’anno successivo, nel 1929, Eduardo e Peppino firmano sotto vari pseudonimi, R. Maffei, G. Renzi e H. Retti, la commedia comica in tre atti con prologo ed epilogo intitolata «Prova generale». «Tre modi di far ridere», rappresentata al Teatro dei Fiorentini, su testo scritto con Michele Galdieri. Eduardo continuerà per anni a utilizzare pseudonimi, tra i più noti Tricot, Molise e C. Consul, per riuscire a tutelare i propri diritti d’autore, spesso ostacolati dagli impresari dell’epoca.
La compagnia stabile e il successo crescente
In breve tempo, i fratelli De Filippo vengono chiamati a far parte della compagnia Molinari, da poco orfana di Totò. Nasce così una ditta autonoma denominata «La Ribalta Gaia», che include, oltre ai tre fratelli, anche Pietro Carloni, Carlo Pisacane, Agostino Salvietti, Tina Pica e Giovanni Bernardi e, con questa nuova formazione, ottengono successo nella rivista «Pulcinella principe in sogno…», all’interno della quale viene rappresentata per la prima volta una delle più celebri commedie giovanili eduardiane: «Sik-Sik, l’artefice magico», rappresentata al Teatro Nuovo di Napoli nel 1929-30.
Finalmente, nel 1931, il grande sogno dei fratelli si realizza: fondano una propria compagnia stabile, il Teatro Umoristico «I De Filippo», con Eduardo come direttore artistico e il debutto avviene a Roma, seguito da alcune repliche a Milano, per poi approdare a Napoli, al Teatro Kursaal.
A Napoli mettono in scena diverse opere: «O chiavino» di Carlo Mauro, nuovamente «Sik-Sik, l’artefice magico», e per la prima volta la commedia scritta da Peppino «Don Rafele ’o trumbone».
Un teatro sempre più universale
Il destino artistico di Eduardo De Filippo prende la strada di un’autonomia sempre più netta, sia come autore che come regista; infatti già nei primi anni Trenta, il pubblico inizia a percepire che il suo teatro non è più soltanto la naturale prosecuzione della tradizione comica napoletana, ma qualcosa di più profondo, capace di raccontare l’anima, le fragilità e le contraddizioni della vita quotidiana.
Già nel 1931, aveva presentato una bozza di quello che diventerà il suo primo capolavoro riconosciuto: «Natale in casa Cupiello», inizialmente un atto unico, la commedia evolve negli anni successivi fino a raggiungere, nel 1943, la sua forma definitiva in tre atti. La storia di Luca Cupiello, sognatore ossessionato dal presepe, diventerà il simbolo della famiglia napoletana, e il paradigma delle incomprensioni, dei sogni e delle piccole tragedie che consumano la vita domestica.
Opere degli anni Trenta e l’approfondimento drammaturgico
Negli stessi anni, continua a scrivere opere che già portano il segno di una drammaturgia raffinata, seppur ancora legata in parte alla farsa. È del 1933 «Chi è cchiù felice ‘e me!», tenera e amara riflessione sulle illusioni di felicità che spesso si rivelano chimere e nel 1934, con «Gennareniello», offre un delicato ritratto dei rapporti familiari, mentre «Pericolosamente», dello stesso anno, gioca con le dinamiche tragicomiche di un matrimonio governato dalla gelosia, con quella leggerezza che solo Eduardo sapeva usare per raccontare il dramma sotto il sorriso.
Ma nel 1936 lo sguardo di Eduardo De Filippo comincia ad allargarsi e scrive «Sogno di una notte di mezza sbornia», ispirata a un’idea di Paolillo, dove affronta il tema del denaro e della fatalità con ironia filosofica. La fortuna diventa una presenza inquietante anche in «La fortuna con l’effe maiuscola» del 1937, scritta insieme ad Armando Curcio, dove l’arricchimento improvviso non porta alla felicità ma a nuovi squilibri. In quello stesso anno compone anche «Sotto a chi tocca» e «Amore e cortesia», piccoli affreschi brillanti che confermano la sua versatilità.
La fine degli anni Trenta vede l’approfondirsi della sua ricerca esistenziale con «È bene non pensarci» e «Io, l’erede», che lo avvicina per la prima volta in modo esplicito a temi pirandelliani, riflettendo sull’identità e il destino; nello stesso periodo, rende omaggio alla maschera simbolo della sua Napoli con «Pulcinella che passione!».
Il dopoguerra e i capolavori universali
Alla vigilia della guerra, la sua penna non si arresta e tra il 1939 e il 1940 compone altre commedie che testimoniano il suo instancabile lavoro: «C’è sempre un ma!», «La donna è mobile» e soprattutto «Non ti pago», una delle sue più celebri: qui la superstizione legata al gioco del lotto si trasforma in una potente allegoria sull’ossessione umana per il destino e il denaro.
Ma è nel 1942 che realizza una delle sue vette artistiche: «Questi fantasmi!», un testo ricchissimo di livelli di lettura, dove l’ironia sui presunti fantasmi diventa metafora dell’incomunicabilità coniugale, delle illusioni sociali e dell’incapacità di distinguere realtà e apparenza.
Nel 1943 completa la versione definitiva di «Natale in casa Cupiello», ma la svolta arriva due anni dopo con «Napoli milionaria!», dove firma quello che molti considerano il primo grande dramma del dopoguerra italiano. Non più solo Napoli, ma l’intero Paese, con le sue macerie fisiche e morali, trova qui un ritratto autentico, senza retorica, in cui la miseria, il mercato nero, la guerra e la fame convivono con una struggente voglia di riscatto e ciò rappresenta consacrazione definitiva di Eduardo come autore universale: il suo teatro non è più soltanto napoletano, è teatro umano, capace di parlare a tutti, ovunque.
I grandi capolavori del dopoguerra
Quando la Seconda guerra mondiale finisce, per lui comincia il periodo più straordinario e fertile della sua carriera artistica e proprio in questo clima nasce, nel 1946, il secondo grande capolavoro eduardiano: «Filumena Marturano».
Questa commedia, scritta appositamente per la sorella Titina, è una delle più alte espressioni del teatro moderno: il personaggio di Filumena, ex prostituta e madre coraggiosa, è il simbolo della dignità femminile che lotta per il riconoscimento dei propri figli e dei propri diritti. In «Filumena» c’è la voce di un’intera generazione di donne, ma anche quella delle classi più umili che rivendicano il diritto alla propria esistenza.
Nel 1947 arriva «Le bugie con le gambe lunghe», una commedia raffinata sulle menzogne e le apparenze che regolano la vita borghese, dove la verità diventa un bene fragile e manipolabile e l’anno successivo, nel 1948, scrive «La grande magia», uno dei suoi testi più filosofici e complessi: un uomo che crede che la moglie sia rimasta intrappolata in una scatola magica diventa metafora della nostra necessità di credere a ciò che ci illude pur di non affrontare la realtà.
L’apogeo del teatro eduardiano
Gli anni Cinquanta rappresentano l’apogeo del «teatro eduardiano», tant’è vero che nel 1950 nasce un altro caposaldo della sua produzione: «Le voci di dentro», dove il confine tra colpevolezza e innocenza, realtà e incubo, viene esplorato con sconcertante attualità. Il personaggio di Alberto Saporito è forse uno dei più straordinari alter ego di Eduardo, un uomo che cerca la verità in un mondo di sospetti e indifferenza morale.
Nel 1952 è la volta di «Sabato, domenica e lunedì», uno dei suoi testi più amati dal pubblico, in cui attraverso un pranzo familiare lungo tre giorni, si svelano ipocrisie, rancori e desideri repressi e qui la cucina napoletana diventa quasi un pretesto per scavare nei rapporti umani con una finezza psicologica che ricorda Čechov.
Nello stesso periodo scrive «Gli esami non finiscono mai», altra grande opera filosofica in cui si mette a nudo l’ossessione per il giudizio sociale che accompagna l’essere umano dalla nascita alla morte e in questo caso la maschera tragica prevale sulla commedia, mostrando un Eduardo ormai pienamente consapevole della sua forza drammaturgica.
Nel 1953 compone «Napoletani a Milano», dove lo scontro culturale tra il Sud e il Nord Italia viene affrontato con ironia ma anche con uno sguardo pungente verso le contraddizioni del boom economico.
Gli ultimi grandi lavori
Il 1960 segna l’arrivo di un altro pilastro del teatro di Eduardo De Filippo: «Il Sindaco del Rione Sanità», dove il personaggio di don Antonio Barracano incarna la figura del «giudice-ombra», capace di amministrare la giustizia popolare laddove lo Stato sembra assente e pur raccontando la realtà camorristica napoletana, scava nella complessità etica del potere, evitando facili condanne o assoluzioni. Da qui seguono altri testi di alto livello: «L’arte della commedia» e «Il contratto».
Nonostante l’età e qualche problema di salute, non smette di scrivere e nel 1973 porta in scena «Gli esami non finiscono mai» in una nuova versione ancora più cupa e spietata. Successivamente firma «Il monumento», una riflessione amara sulla memoria e sull’inutilità di alcune celebrazioni ufficiali, e nel 1976 «Quei figuri di trent’anni fa», nuova rielaborazione del suo testo giovanile.
L’eredità di Eduardo
Nel frattempo, il suo teatro viene tradotto e rappresentato in tutto il mondo e riceve onorificenze, lauree honoris causa, premi internazionali. Diventa anche senatore a vita della Repubblica Italiana nel 1981, un riconoscimento che celebra non solo l’artista, ma anche il suo ruolo civile e morale nel Paese.
Negli ultimi anni, pur scrivendo di meno, si dedica con passione alla trasmissione del suo repertorio e alla formazione degli attori, fondando nel 1981 la «Scuola di Recitazione del Teatro di Roma», per tramandare la sua arte ai giovani. La sua ultima opera compiuta è «Gli esami non finiscono mai», che rappresenta per l’ultima volta personalmente nel 1980, ormai consapevole di essere giunto alla fine del suo percorso artistico. Muore a Roma il 31 ottobre 1984, a 84 anni. Lascia un patrimonio teatrale immenso e insostituibile, che ancora oggi continua a essere studiato, rappresentato e amato in tutto il mondo.